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George avanzò ancora e giunse all’ultima porta. La spalancò. Dall’altra parte c’era il nulla.

— Aiutatemi — disse forte, perché il vuoto lo aspirava, lo tirava a sé. Da solo non aveva la forza di attraversare il nulla e di uscire dall’altra parte.

Ci fu una sorta di opaco risveglio nella sua mente; pensò a Tiua’c Ennebi, e al busto di Schubert e alla voce di Heather che esclamava con furia: — Ma che cacchio, George? — Forse erano le uniche cose che possedeva per attraversare il vuoto. Avanzò. E mentre avanzava, sapeva di doverle perdere.

Entro nell’occhio dell’incubo.

Era un’oscurità fredda, vagamente mobile, rotante, fatta di paura, che lo scagliava via, lo faceva a pezzi. Sapeva dove si trovava l’Aumentore. Tese la sua mano mortale nella direzione in cui vanno le cose. Toccò l’Aumentore; cercò il pulsante in basso e lo premette una volta.

Poi si stese a terra, coprendosi gli occhi e nascondendosi, perché la paura aveva fatto presa sulla sua mente. Quando alzò la testa e guardò, il mondo re-esisteva. Non era in buone condizioni, ma c’era.

Non si trovavano nella torre del SURA, ma in un ufficio più ordinario, più sporco, che George non aveva mai visto. Haber giaceva sul divano: massiccio, con la barba puntata verso l’alto. La barba aveva ripreso il suo colore rosso scuro, e la pelle era di nuovo bianca, non grigia. Gli occhi erano semiaperti e non vedevano.

Orr distaccò gli elettrodi, i cui fili correvano come vermi dal cranio di Haber all’Aumentore. Lanciò un’occhiata alla macchina, che aveva tutti i portelli aperti; bisognava distruggerla, pensò. Ma non aveva idea di come si potesse farlo, né aveva intenzione di provare. La distruzione non era il suo mestiere; e una macchina è perfino più irreprensibile, più innocente di un animale. Non ha altre intenzioni se non quelle che le diamo noi.

— Dottor Haber — disse, scuotendo leggermente le sue spalle massicce e pesanti. — Haber! Si svegli!

Dopo un poco, il grande corpo si mosse, e infine si rizzò a sedere. Era debole e rilasciato. La grande, bella testa ciondolava sulle spalle. La bocca era aperta. Gli occhi fissavano direttamente innanzi a sé, nel buio, nel vuoto, nell’an-essenza che era il centro di William Haber: non erano più opachi, erano vuoti.

Orr provò fisicamente paura di lui, e arretrò.

Devo trovare aiuto, pensò, non posso occuparmene da solo… Lasciò l’ufficio, attraversò una sala d’attesa che non conosceva, scese di corsa le scale. Non era mai stato in questo edificio e non aveva idea di cosa fosse, o di dove si trovasse. Quando giunse in strada, vide che era una via di Portland, ma nient’altro. Non era nei pressi di Washington Park, né nelle alture occidentali. George non era mai passato in quella via.

La vacuità dell’essere di Haber, l’incubo efficace che si era irradiato dal cervello sognante, aveva infranto molte connessioni. La continuità che aveva sempre regnato tra i mondi, o linee temporali, dei sogni di Orr, adesso era interrotta. Il Caos vi era penetrato. Orr conservava pochi, incoerenti ricordi della sua attuale esistenza; quasi tutto ciò che sapeva veniva dalle altre memorie, dagli altri tempi-sogno.

Altre persone, meno coscienti, forse erano meglio equipaggiate di lui per questo spostamento di esistenza: ma certo dovevano essere più atterrite di lui, dato che non avevano spiegazioni per quanto era successo. Avrebbero scoperto che il mondo era cambiato radicalmente, insensatamente, improvvisamente, senza che il cambiamento avesse una possibile causa razionale. Al sogno del dottor Haber sarebbero seguiti molto terrore e molti morti.

E perdite. E perdite.

Sapeva di averla perduta; lo sapeva da quando era penetrato, con il suo aiuto, nel vuoto terrificante che circondava il sognatore. Era andata perduta insieme con il mondo delle persone grige e con il grande, illusorio edificio in cui George si era precipitato, lasciandola sola nella rovina e nella dissoluzione dell’incubo. Era perduta.

Non cercò di trovare aiuto per Haber. Per Haber non si poteva fare più niente. E neppure per lui. Aveva fatto tutto ciò che era in suo potere di fare. Proseguì il suo cammino per le strade sconvolte. Dalle insegne, vide che era nella parte nordest di Portland, una zona che non conosceva. Le case erano basse, e dagli angoli si profilava a volte la montagna. Si accorse che l’eruzione era cessata; in effetti non era mai cominciata. Il Monte Hood si ergeva violaceo nel cielo d’aprile sempre più scuro, ed era spento. La montagna dormiva.

E sognava.

Orr continuò a camminare senza meta, seguendo prima una strada e poi un’altra; era esausto, e a volte provava la tentazione di stendersi per terra e di riposare per un po’, ma continuò ugualmente ad andare avanti. Ora si stava avvicinando a un quartiere commerciale, nei pressi del fiume. Nella città, semidistrutta e semitrasformata, miscuglio di piani grandiosi e di ricordi incompleti, la gente formicolava come impazzita; il fuoco e la follia si propagavano da una casa all’altra. Eppure c’era anche qualcuno che badava come sempre alle proprie faccende: laggiù c’erano due uomini che saccheggiavano una gioielleria, e dietro di loro veniva una donna che, con in braccio il figlio urlante e congestionato in viso, si dirigeva coscienziosamente verso casa.

Dovunque fosse «casa».

CAPITOLO UNDICESIMO

Luce di Stella chiese a Non-Entità: «Maestro, tu esisti? o tu non esisti?». La sua domanda, però, non ebbe risposta…

Chuang-Tse: XXII

A un certo momento della notte, mentre cercava il modo di raggiungere la Corbett Avenue tra il caos della periferia, Orr venne fermato da un Alieno aldebaraniano che lo convinse a seguirlo. E Orr lo seguì, docilmente. Dopo un poco, gli chiese se era Tiua’c Ennebi; ma glielo chiese senza molta convinzione, e non parve dispiaciuto quando l’Alieno gli spiegò, piuttosto laboriosamente, che il suo nome era Gior Gior, e che lui (o esso?) si chiamava E’nememen Asfah.

Lo portò al suo appartamento nei pressi del fiume, al di sopra di un’officina per la riparazione di biciclette e a porta a porta con la Chiesa Evangelica dell’Eterna Speranza, che quella sera era notevolmente affollata. In tutto il mondo veniva chiesta alle varie divinità, in termini più o meno educati, la spiegazione di ciò che era successo tra le 18 e 25 e le 19 e 08, Ora Media della Costa Occidentale. Dolcemente discordante, una musica Rock suonava sotto i loro piedi mentre salivano le scale buie e giungevano all’appartamento del primo piano. Lì giunti, l’Alieno gli consigliò di stendersi sul letto, perché aveva un aspetto stanco. — Sonno che ricuce la manica sfilacciata dell’attenzione — disse.

— Dormire, forse sognare; sì, questo è il problema — rispose Orr. La strana maniera in cui gli Alieni comunicavano, si disse, ha una sua profondità; ma era troppo stanco per analizzarla. — Dove dorme, lei? — chiese, lasciandosi cadere pesantemente sul letto.

— Nessun posto — rispose l’Alieno. La sua voce senza intonazione lasciava aperti ogni sorta di significati.

Orr si piegò per slacciarsi le scarpe. Non voleva sporcare di fango la coperta dell’Alieno, che era così gentile con lui. Piegandosi, provò un senso di stordimento. — Sono stanco — disse. — Oggi ho fatto molte cose. Cioè, ho fatto una sola cosa. L’unica cosa che io abbia mai fatto. Ho premuto un pulsante. C’è voluta tutta la mia forza di volontà, la somma di tutta la forza di volontà della mia esistenza, per schiacciare quel maledetto pulsante di SPENTO. — Voi avete vissuto bene — disse l’Alieno.

Era fermo in un angolo, in piedi, e pareva intenzionato a rimanere lì eternamente.

Non era lì, pensò Orr: almeno, non era lì nel modo in cui lui, Orr, sarebbe potuto stare lì in piedi, o sedere, o giacere sdraiato, o esistere. Era lì come sarebbe potuto esserci lui in un sogno. Era lì nel senso che, sognando, siamo in qualche punto del sogno.

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