— Eppure non è uno psicotico, mi diceva lei stesso — fece la Lelache, con un filo di dubbio nella voce.
— Giusto. Le dicevo che è soltanto disturbato. Ma se si spezzasse, certo, si spezzerebbe completamente; probabilmente nella direzione di una schizofrenia catatonica. Una personalità disturbata non corre meno rischi di cadere nella psicosi di una persona normale. — Non riusciva più a parlare, le parole gli si asciugavano sulla lingua, diventavano briciole secche di discorsi privi di senso. Gli pareva di avere continuato a rovesciare dalla bocca, per ore, un diluvio di frasi senza significato, e che ormai quelle frasi gli avessero preso la mano. Per fortuna pareva che anche Miss Lelache ne avesse abbastanza; la donna sbatté, scattò, gli diede la mano e uscì.
Per prima cosa, Haber si recò a un pannello incassato nel muro, a lato del divano, dov’era nascosto il magnetofono su cui registrava le sedute: i registratori privi di segnalazione acustica di funzionamento erano un privilegio particolare degli psicoterapeuti e del Servizio Informazioni della Polizia. Cancellò la registrazione dell’ora precedente.
Poi si accomodò nella sua poltroncina, dietro la grande scrivania di quercia, aprì l’ultimo cassetto, prese bicchiere e bottiglia e si versò una robusta dose di bourbon. Santo Cielo, il bourbon non esisteva più, mezz’ora prima… era scomparso da vent’anni! Il grano era troppo prezioso, con sette miliardi di bocche da sfamare, per usarlo per fare del liquore. Le uniche bevande erano la birra sintetica, e (per i medici) l’alcool puro; e nella bottiglia del cassetto c’era stato alcool puro, mezz’ora prima.
Mandò giù, con una sorsata, metà del bicchiere; poi lo posò. Si voltò a fissare la finestra. Dopo qualche minuto si alzò e andò a guardare al di là dei vetri, osservando i tetti e gli alberi. Centomila anime. La sera cominciava a scurire le acque del fiume tranquillo, ma le montagne s’innalzavano ancora chiare e immense, lontano, avvolte dalla luce delle altitudini.
— A un mondo migliore! — brindò il dottor Haber, levando il bicchiere verso la sua creatura, e terminò il bourbon lentamente, assaporandone l’aroma.
CAPITOLO SESTO
Ci resta forse ancora da imparare… che il nostro compito è soltanto all’inizio, e che non avremo mai neppure l’ombra di un aiuto, eccetto che quello dell’ineffabile e inconcepibile Tempo. Ci resta forse ancora da imparare che l’infinito cerchio della vita e della morte, da cui non ci è dato fuggire, è da noi creato, è da noi cercato; che le forze che cementano i mondi sono gli errori del Passato; che l’eterna angoscia non è altro che l’eterna sete del desiderio insaziabile; e che gli astri spenti sono riaccesi soltanto dall’inestinguibile passione delle vite consumate.
Lafcadio Hearn, Out of the East
L’appartamento di George Orr era all’ultimo piano di un edificio in legno, in uno dei primi isolati della Corbett Avenue, in una zona fatiscente della città dove la maggior parte delle case avevano cent’anni o più. Era composto di tre ampie stanze e di un bagno con vasca molto alta, a zampe di leone; dalle finestre, al di là di una teoria di tetti, si vedeva il fiume, su cui passavano navi, imbarcazioni da diporto, tronchi, gabbiani e grandi stormi di piccioni.
Naturalmente, Orr conservava anche un perfetto ricordo del suo appartamento precedente, il monostanza 2,60 per 3,40 col forno incassato nella parete, il letto pneumatico e il cesso in comune, al fondo del corridoio dal pavimento di linoleum, al diciottesimo piano del Condominio Corbett: un casermone che non era mai stato costruito.
Scese dal tram a Whiteaker Street e si avviò per la salita, poi salì gli scalini ampi e scuri; entrò, posò in terra la borsa, si stese sul letto e si rilassò. Era atterrito, angosciato, esaurito, sbalordito. — Devo fare qualcosa. Devo davvero fare qualcosa — continuò a ripetersi, ma non sapeva cosa. Non lo aveva mai saputo. Aveva sempre fatto ciò che gli era parso necessario, la cosa più immediata, senza fare domande, senza forzare se stesso, senza preoccuparsi. Ma questa sicurezza lo aveva abbandonato quando aveva cominciato a prendere farmaci, e ormai si sentiva sperduto. Doveva agire, era necessario agire. Non doveva più permettere a Haber di usarlo come uno strumento. Doveva prendere nelle sue mani il proprio destino.
Allargò le mani e le fissò, poi vi affondò la faccia: era bagnata di lacrime. Oh, merda, merda, si disse tristemente, che razza di uomo sono? Piango! Niente di strano che Haber mi usi. Non può farne a meno. Non ho la minima forza di carattere. Sono uno strumento nato. Non ho nessun destino. Ho soltanto dei sogni. Che adesso sono comandati da un altro.
Devo allontanarmi da Haber, pensò, cercando di essere fermo e deciso, ma già mentre lo pensava sapeva che non lo sarebbe stato. Haber lo teneva legato, e con numerose catene, per di più.
Una configurazione onirica così rara, davvero unica, aveva detto Haber, è preziosa per la ricerca: il contributo di Orr alla conoscenza umana si sarebbe rivelato immenso. Orr aveva pensato che Haber lo dicesse con sincerità, e con cognizione di causa. Per lui, infatti, l’aspetto scientifico della cosa era l’unico che lasciasse adito a qualche speranza: gli pareva che la scienza avrebbe potuto ricavare qualcosa di buono dal suo dono straordinario e terribile, volgerlo a qualche buon fine che avrebbe potuto parzialmente compensare l’enorme danno da lui provocato.
L’uccisione di sei miliardi di persone inesistenti.
Orr aveva l’impressione che la testa stesse per scoppiargli. Riempì d’acqua fredda il lavandino alto e incrinato, e vi affondò la faccia per mezzo minuto alla volta, uscendone rosso, cieco e grondante come un bambino appena nato.
Haber lo teneva con una catena di tipo morale, certo, ma quella che lo legava di più era la catena legale. Se Orr avesse sospeso la Terapia Volontaria, si sarebbe reso passibile di arresto per uso illegale di farmaci, e sarebbe finito in carcere o all’ospedale psichiatrico. Non c’era via d’uscita. E se non avesse interrotto il trattamento, ma si fosse limitato a sabotare le sedute rifiutando di collaborare, Haber avrebbe avuto a disposizione ugualmente un efficace strumento di coercizione: i farmaci per la soppressione del sogno, che Orr poteva ottenere soltanto con ricetta medica. Orr era allarmato più che mai alla prospettiva di sognare spontaneamente, senza controllo. Nello stato in cui era, dopo essere stato condizionato a sognare in modo efficace ogni volta, in condizioni di laboratorio, preferiva non pensare a ciò che sarebbe potuto succedere se avesse sognato efficacemente senza i freni razionali imposti dall’ipnosi. Ne sarebbe scaturito un incubo: un incubo peggiore di quello che aveva appena avuto nell’ufficio di Haber; ne era assolutamente certo, e non osava correre il rischio che succedesse. Doveva prendere assolutamente i farmaci che sopprimevano i sogni. Questa era l’unica cosa che sapeva di dover fare. Ma poteva farla soltanto finché Haber gli permetteva di farla: dunque doveva collaborare con Haber. Era preso nella rete. Un topo in trappola. Correva nel labirinto per ordine dello scienziato pazzo, e non c’era uscita. Non c’era uscita.
Ma non è uno scienziato pazzo, si ostinò a dirsi. È sano di mente, o almeno lo era. A farlo cambiare, è stata la prospettiva di potere che gli danno i miei sogni. Egli si limita a recitare la sua parte, e la mia facoltà gli ha assegnato una parte enorme. Cosicché egli ha finito coll’usare perfino la sua scienza come un mezzo, anziché come un fine… Ma i suoi fini sono nobili, no? Desidera migliorare la vita dell’umanità. Sbaglia, forse?
La testa stava per scoppiargli di nuovo. L’aveva messa nuovamente sott’acqua quando squillò il telefono. Cercò di asciugarsi in fretta faccia e capelli, ritornò nella camera da letto buia e cercò a tastoni l’apparecchio. — Pronto, parla Orr.