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Non era più l’uomo magro e ossuto che era stato nel mondo dei sette miliardi; anzi, adesso era bene in carne. Ma mangiò un pasto da affamato, un pasto enorme: uova sode, pane e burro, acciughe, carne secca, sedano, formaggio, noci, filetto di halibut freddo con maionese, lattuga, barbabietole in mostarda, dolci al cioccolato… insomma, tutto ciò che trovò nel frigo. Dopo questa specie di orgia si sentì molto meglio dal punto di vista fisico. Mentre beveva del genuino caffè non surrogato, qualcosa che pensò lo fece sorridere. Pensò: in quella vita, ieri, ho fatto un sogno efficace, che ha cancellato sei miliardi di vite e ha cambiato l’intera storia dell’umanità degli scorsi venticinque anni. Ma in questa vita, che ho creato allora, io non ho fatto un sogno efficace. Sono stato nell’ufficio di Haber, d’accordo, e ho sognato; ma non ho cambiato nulla. È sempre stato come adesso, e io ho fatto soltanto un brutto sogno sugli Anni della Peste. Non c’è niente di storto in me; non ho bisogno della terapia.

Non aveva mai considerato le cose sotto questo aspetto, in precedenza, e ora la considerazione lo divertì al punto da strappargli un sorriso; ma non era un sorriso particolarmente allegro.

Sapeva che avrebbe sognato ancora.

Erano già passate le due. Si lavò, prese l’impermeabile (di vero cotone, un lusso nell’altra vita), e si avviò a piedi in direzione dell’Istituto, che distava circa tre chilometri e si trovava al di là della Clinica Universitaria, nel Washington Park. Avrebbe potuto arrivarci col tram, ma il servizio era sporadico e faceva dei grandi giri, e comunque non c’era fretta. Era piacevole passare per le strade senza folla, nella tiepida pioggia di marzo; gli alberi stavano mettendo le foglie, gl’ippocastani i primi fiori.

Il Crollo, l’epidemia cancerosa che aveva ridotto l’umanità di cinque miliardi in cinque anni, e di un altro miliardo nei dieci successivi, aveva scosso dalle fondamenta la civiltà mondiale, eppure l’aveva lasciata, in fin dei conti, intatta. Non aveva cambiato nulla radicalmente: soltanto qualitativamente.

L’aria era ancora profondamente, irrimediabilmente inquinata: l’inquinamento aveva preceduto il Crollo di decenni, e, in verità, ne era stato direttamente la causa. Ormai non arrecava più molti danni, salvo che ai neonati. La Peste, nella sua varietà leucemica, colpiva ancora selettivamente — deliberatamente, si sarebbe detto — un neonato su quattro e lo uccideva entro sei mesi. I sopravvissuti erano virtualmente immuni dal cancro. Ma c’erano degli altri lati negativi.

Nessuna fabbrica vomitava fumo, dalle parti del fiume. Nessuna auto correva impestando l’aria con i gas di scarico; le poche rimaste andavano a vapore o a batterie.

E non c’era nessun uccello che cantasse, inoltre.

Gli effetti della Peste erano visibili in ogni cosa: la malattia stessa era ancora endemica, ma non aveva impedito lo scoppio della guerra. Anzi, i combattimenti in Medio Oriente erano più feroci di quanto non lo fossero stati nel mondo dell’affollamento. Gli Stati Uniti sostenevano pesantemente la parte israeliana-egiziana con armi, munizioni, aeroplani e «consiglieri militari» a reggimenti interi. La Cina sosteneva altrettanto vigorosamente la parte Iraq-Iran, anche se non aveva ancora inviato soldati cinesi: soltanto tibetani, nord-coreani, vietnamiti e mongoli. Russia e India si tenevano ancora da parte, ma con inquietudine; e ora che Afghanistan e Brasile stavano per entrare in guerra a fianco degli iraniani, il Pakistan rischiava di mettersi dalla parte isregiziana. In tal caso l’India si Sarebbe allarmata e si sarebbe alleata alla Cina, e ciò avrebbe potuto spaventare sufficientemente la Russia da farla venire al fianco degli Stati Uniti. Questo faceva un totale di dodici Potenze Nucleari, sei per parte. Tali le previsioni…Intanto Gerusalemme era in rovine, e in Arabia Saudita e in Iraq la popolazione civile viveva in tane scavate nel terreno, mentre gli aeroplani e i carri armati spargevano fuoco dall’aria e colera nelle acque, e i bambini strisciavano fuori dalle tane accecati dal napalm.

Stavano ancora massacrando dei bianchi a Johannesburg, lesse Orr sulla prima pagina di un giornale, all’edicola. Erano passati anni dalla Rivolta, e rimanevano ancora dei bianchi da massacrare in Sudafrica! Gente dura, quella…

La pioggia continuò a cadere tiepida, inquinata, dolce sulla sua testa nuda mentre camminava sulle grige colline di Portland.

Nell’ufficio con la grande finestra d’angolo che si affacciava sulla pioggia, disse: — Per favore, Dottor Haber, la smetta di usare i miei sogni per migliorare il mondo. Non serve a niente. È sbagliato. Io voglio guarire.

— Questo è l’unico requisito essenziale per la sua guarigione, George. Volere guarire.

— Lei non mi ha risposto.

Ma l’uomo massiccio era come una cipolla, costituito uno strato dopo l’altro di personalità, convinzioni, risposte; un’infinità di strati, nessuna fine per essi, nessun centro per lui. Nessun punto dove si fermasse, si dovesse arrestare, dovesse dire: «Qui mi fermo!». Niente sostanza, soltanto strati.

— Lei usa i miei sogni efficaci per cambiare il mondo. Ma non vuole ammettere di fronte a me che lo fa. Perché?

— George, lei deve comprendere che mi pone delle domande che dal suo punto di vista possono parere ragionevoli, ma che dal mio punto di vista non hanno letteralmente nessuna risposta. Noi non vediamo la realtà nello stesso modo.

— Ma la vediamo in modo abbastanza simile, tanto da poterne parlare.

— Sì. Fortunatamente. Ma spesso non tanto da poter dare una risposta a qualche domanda. Non ancora.

— Io posso rispondere alle sue domande, e lo faccio… Comunque, pensi a una cosa. Lei non può continuare a cambiare le cose, a cercare di comandarle.

— Lei parla come se fosse una specie di imperativo morale generale. — Rivolse a Orr uno dei suoi sorrisi cordiali e pensierosi, strofinandosi la barba. — Ma in realtà, non è proprio questo lo scopo dell’uomo a questo mondo… fare cose, cambiare cose, comandare cose, fare un mondo migliore?

— No!

— Qual è lo scopo dell’uomo, allora?

— Non lo so. Le cose non hanno uno scopo, come se l’universo fosse una macchina, in cui ogni parte svolge una funzione utile. Qual è la funzione di una galassia? Non so se la nostra vita abbia uno scopo, e non mi pare che la cosa abbia importanza. La cosa che ha importanza è che noi siamo una parte. Come un filo di lana in un tappeto, o un filo d’erba in un prato. Esso esiste e noi esistiamo. La cosa che stiamo facendo è come il vento che soffia sull’erba.

Ci fu una breve pausa, e quando Haber rispose, il suo tono di voce non era più cordiale, rassicurante o incoraggiante. Era del tutto neutro e volgeva, in modo appena avvertibile, sullo sprezzante.

— È una concezione stranamente passiva per un uomo cresciuto nell’Occidente giudaico-cristiano-razionalista. Una sorta di buddismo istintivo. Non ha mai studiato il misticismo orientale, George? — L’ultima domanda, con la sua risposta ovvia, era una chiara derisione.

— No. Non so nulla di queste cose. Ma so che è sbagliato forzare lo schema delle cose. Non serve. È stato per un secolo il nostro errore. Lei non ha… non ha visto cosa è successo ieri?

Lo sguardo cupo e opaco incontrò il suo, direttamente.

— Che cos’è successo, ieri, George?

Non c’era modo di uscirne. Non c’era modo.

Ora Haber usava su di lui il pentotal sodico, per abbassare la sua resistenza ai procedimenti dell’ipnosi. Si sottopose all’iniezione, osservando l’ago che penetrava con solo un istante di dolore nella vena del braccio. Così doveva succedere: non aveva scelta. Non aveva mai avuto scelta. Era soltanto un sognatore.

Haber si allontanò per terminare qualche sua faccenda mentre il farmaco faceva effetto; ma fu di ritorno dopo quindici minuti, tempestoso, gioviale e indifferente. — Benissimo! Diamoci da fare, George!

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