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Therem!

Proprio sotto la mia mano, inginocchiato, Estraven mi disse:

— Avanti, aiutami a montare la tenda.

Lo feci, e non feci il minimo accenno, mai, al mio momento di panico. Non ce ne fu bisogno.

Questa tormenta durò per due giorni; così furono cinque i giorni perduti, e ce ne sarebbero stati altri. Nimmer e Anner sono i mesi delle grandi bufere.

— Cominciamo a fare delle parti molto sottili, vero? — dissi una notte, misurando la nostra razione di gichy-michy, e affondandola nell'acqua bollente.

Lui mi guardò. Il suo viso largo, fermo, mostrava la perdita di peso nelle ombre profonde sotto gli zigomi, gli occhi erano infossati e la bocca era gonfia e screpolata. Dio solo sa quale fosse il mio aspetto, se quello di Estraven era così. Lui sorrise:

— Con fortuna ce la faremo, e senza fortuna non ce la faremo.

Era quello che aveva detto fin dall'inizio. Con tutte le mie ansie, con il mio senso di compiere un ultimo disperato tentativo, una partita con la morte, e così via, non ero stato sufficientemente realistico da credergli. E perfino adesso io pensavo, Certo, dopo avere lavorato così duramente…

Ma il Ghiaccio non sapeva come e quanto duramente avessimo lavorato. E perché avrebbe dovuto saperlo? La proporzione è rispettata.

— Come va la tua fortuna, Therem? — dissi, alla fine.

Lui non sorrise, a queste parole. E non rispose. Solo, dopo qualche tempo, disse:

— Ho pensato a tutti loro, laggiù.

Laggiù, per noi, significava ormai il sud, il mondo che si stendeva sotto l'altopiano di ghiaccio, la regione della terra, degli uomini, delle strade, delle città, tutte cose che era diventato difficile immaginare esistessero realmente.

— Tu sai che ho avvertito il re di quello che ti accadeva, il giorno in cui sono partito da Mishnory. Gli ho mandato a dire ciò che mi aveva detto Shusgis, che tu saresti stato mandato alla Fattoria Pulefen. Allora non sono riuscito a stabilire con chiarezza il mio intento, ma ho semplicemente seguito il mio impulso. Da allora, ho meditato su quell'impulso. Può accadere qualcosa di simile a quanto ti dirò ora: il re vedrà una possibilità di giocare lo shifgrethor. Tibe lo consiglierà di non farlo, ma Argaven dovrebbe essersi già stancato un poco di Tibe, ormai, e potrà ignorare il suo consiglio. Farà delle indagini. Dov'è l'Inviato, l'ospite di Karhide?… Mishnory mentirà. È morto di febbre nera quest'autunno, è davvero molto deprecabile. … Allora come mai noi siamo informati dalla nostra Ambasciata che egli si trova nella Fattoria Pulefen? … non si trova là, andate voi stessi a cercarlo. … No, no, naturalmente no, accettiamo la parola dei Commensali di Orgoreyn… Ma poche settimane dopo questi scambi di domande e risposte, l'Inviato appare in Nord Karhide, dopo essere evaso dalla Fattoria Pulefen. Costernazione a Mishnory; indignazione a Erhenrang. I Commensali perdono la faccia, perché vengono colti in flagrante menzogna. Tu sarai un tesoro, un fratello di focolare per troppo tempo. Dovrai chiamare subito la tua Nave stellare, alla prima occasione che riuscirai ad avere. Porta la tua gente in Karhide, e completa la tua missione, immediatamente, prima che Argaven abbia avuto il tempo di vedere in te il possibile nemico, prima che Tibe o qualche altro consigliere spaventi il re ancora una volta, giocando sulla sua pazzia. Se lui fa il patto con te, lo manterrà. Romperlo vorrebbe dire spezzare anche il suo shifgrethor. I sovrani di Harge mantengono le loro promesse. Ma devi agire in fretta, e fare discendere presto la Nave.

— Lo farò, se riceverò anche il più piccolo segno di benvenuto.

— No: perdona il consiglio che ti do ora, ma non devi aspettare il benvenuto. Ti sarà dato il benvenuto, penso. Così pure alla Nave. Karhide è stato profondamente umiliato, gravemente umiliato, nell'ultimo mezzo-anno. Tu offrirai ad Argaven l'occasione per girare le tavole. Credo che egli saprà afferrare l'occasione.

— Bene. Ma tu, nel frattempo…

— Io sono Estraven il Traditore. Io non ho assolutamente nulla a che fare con te.

— All'inizio.

— All'inizio — ammise lui.

— Potrai nasconderti, se ci sarà pericolo, all'inizio?

— Oh sì, certamente.

Il nostro cibo era pronto e tacemmo. Mangiare era così importante, così bello ed essenziale, in quella situazione, che noi non parlavamo più, mentre mangiavamo; il tabù era adesso nella sua forma completa, forse nella forma originale, non veniva pronunciata una parola fino a quando l'ultima briciola non era consumata. Quando il pasto fu finito, egli disse:

— Ebbene, spero di avere visto giusto. Tu vorrai… tu vorrai… tu vorrai perdonarmi…

— Per avermi dato un consiglio diretto? — dissi, perché esistevano certe cose che finalmente ero arrivato a comprendere. — Naturalmente sì, Therem. Davvero, e come puoi dubitarne? Lo sai che non ho uno shifgrethor da abbassare. — Questo lo divertì, ma era ancora pensieroso.

— Perché — disse, alla fine, — perché sei venuto solo… perché sei stato mandato qui solo? Ogni cosa, anche dopo dipenderà dall'arrivo di quella nave. Perché tutto è stato reso così difficile per te, e per noi?

— È l'usanza dell'Ecumene, e questa usanza è fondata su diversi motivi. Anche se, in realtà, comincio a domandarmi se mai io abbia capito questi motivi. Pensavo che fosse per voi, che io dovessi venire da solo, così evidentemente solo, così vulnerabile, al punto che in me stesso non fosse possibile raffigurare alcuna minaccia, che la mia presenza non potesse alterare alcun equilibrio: non un'invasione, ma soltanto un messaggero. Ma c'è qualcosa di più; la spiegazione non è così limitata. Da solo, io non posso cambiare il vostro mondo. Ma posso venire cambiato da esso. Da solo, io devo ascoltare, e non parlare soltanto. Da solo, la relazione che alla fine io stabilisco, se ci riesco, non è impersonale e non è solo politica: è individuale, è personale, è più e meno che politica, allo stesso tempo. Non Noi e Loro; non Io e il Pianeta; ma Io e Te. Non politica, non pragmatica, ma mistica. In un certo senso l'Ecumene non è un corpo politico, ma un corpo mistico. Esso considera gli inizi di estrema importanza. Gli inizi, e i mezzi. La dottrina dell'Ecumene è esattamente l'opposto della dottrina secondo la quale il fine giustifica i mezzi. Si procede, perciò, in maniere sottili, e lente, e strane, rischiose; si agisce a somiglianza dell'evoluzione, che è, in un certo senso, il modello… Così sono stato mandato solo, per il vostro bene? O per il mio? Non lo so. Sì, questo ha reso le cose più difficili. Ma io potrei chiederti, con lo stesso profitto, perché voi getheniani non avete mai trovato conveniente costruire dei veicoli volanti. Rubando un piccolo aeroplano, io e te ci saremmo risparmiati molte difficoltà!

— Come potrebbe mai venire in testa a un uomo ragionevole la possibilità di volare? — disse con fermezza Estraven. Era una reazione giusta, su di un mondo dove nessuna creatura vivente aveva le ali, e perfino gli angeli della Gerarchia Yomesh del Santo non volano, ma galleggiano soltanto, senz'ali, scendendo mollemente sulla terra, come morbidi fiocchi di neve, come i semi portati dal vento di quel mondo senza fiori.

Verso la metà di Nimmer, dopo molto vento e molto freddo pungente, per diversi giorni ci trovammo in un tempo clemente. L'aria era meno perturbata. Se c'era bufera, era a sud, laggiù, e noi del luogo nella tormenta, all'interno della tormenta, avevamo soltanto una foschia perenne, senza vento. Dapprima la foschia fu sottile, così che l'aria parve vagamente radiante, di una luce solare uguale, senza sorgente visibile, riflessa da nubi e neve a un tempo, dall'alto e dal basso. Di notte, il maltempo era ritornato ad addensarsi. Tutta la lucentezza era scomparsa, senza lasciare niente. Eravamo usciti dalla tenda, e ci eravamo trovati nel nulla. Niente. Slitta e tenda erano là, Estraven era in piedi accanto a me, ma né lui né io avevamo un'ombra. C'era una luce spenta, livida, tutt'intorno, ovunque. Quando camminammo sulla neve rassodata, nessuna ombra mostrò le impronte. Non lasciavamo traccia. Non lasciavamo più traccia. Slitta, tenda, lui, io; niente altro, niente di niente. Non c'era sole, non c'era cielo, non c'era orizzonte, non c'era mondo. Un vuoto biancastro, nel quale sembravamo sospesi. L'illusione era così completa, che faticai a mantenere l'equilibrio. I miei orecchi interiori furono usati per confermare quello che i miei occhi registravano, sulla mia posizione; gli occhi non trovavano nulla; avrei potuto essere cieco. Tutto andò bene quando si trattò di caricare la slitta, ma in viaggio, senza niente davanti, niente da guardare, niente che l'occhio potesse toccare, tutto ciò fu all'inizio sgradevole e poi estenuante. Eravamo sugli sci, su una superficie liscia e favorevole al viaggio, neve granulosa, ghiacciata, senza sastrugi, e solida… questo ero certo… per millecinquecento, duemila metri sotto i nostri piedi. Avrebbe dovuto essere tutto molto bello. Un momento buono, uno dei migliori del viaggio. Ma continuammo a rallentare, a cercare a tentoni la strada attraverso la pianura completamente libera da qualsiasi ostacolo, e ci volle un intenso sforzo di volontà per accelerare, per ritrovare una velocità normale, abituale, nella nostra marcia. Ogni lievissima variazione della superficie veniva con un sobbalzo violento… come nel salire le scale, il gradino inaspettato o il gradino aspettato ma assente… perché non potevamo vedere davanti a noi; non c'era alcuna ombra a mostrarlo. Sciammo alla cieca, con gli occhi aperti. Un giorno dopo l'altro, nulla cambiava, era sempre così, e noi cominciammo ad abbreviare i nostri percorsi giornalieri, perché a mezzogiorno entrambi stavamo già sudando e tremando per la tensione e la fatica. Arrivai a sperare che venisse la neve, che venisse la tormenta, che venisse qualcosa, qualsiasi cosa; ma un mattino dopo l'altro, uscivamo dalla tenda e ci ritrovavamo nel vuoto, il tempo bianco, quello che Estraven chiamava la Non-ombra.

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