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— Sono sordo, sordo come una roccia. Faremo meglio a dormire.

Io assentii.

Lui spense la luce, mormorò la sua breve lode delle tenebre; affondammo nei nostri sacchi a pelo, e dopo un minuto o due lui stava scivolando nel sonno, come un nuotatore affonda nell'acqua nera. Sentii il suo sonno come se fosse il mio: il legame telepatico era là, e ancora una volta lo chiamai telepaticamente, assonnato, chiamandolo per nome:

Therem!

Lui dovette sollevarsi di scatto, perché la sua voce giunse fino a me nel buio, forte, improvvisa:

— Arek! sei tu?

No: Genly Ai. Questo è il linguaggio della mente.

Trattenne il respiro. Silenzio. A tentoni, lo sentii, stava cercando qualcosa, vicino alla stufa Chabe. Accese la luce. Mi fissò, con gli occhi scuri pieni di paura.

— Sognavo — disse. — Pensavo di essere a casa…

— Ero io, che parlavo con la mente.

— Mi avete chiamato… Era mio fratello. Era la sua voce, che ho udito. È morto. Mi avete chiamato… Mi avete chiamato Therem? Io… Questo è più terribile di quanto avessi pensato. — Scosse il capo, come un uomo che voglia scuoter via il ricordo di un incubo, e poi si prese il viso tra le mani.

— Harth, mi dispiace, mi dispiace molto…

Senza alzare il viso, mi disse:

— No, chiamami per nome. Se tu puoi parlare nel mio cranio, con la voce di un morto, allora, allora mi puoi chiamare per nome! Lui forse mi avrebbe chiamato Harth? Mi avrebbe dato del voi! Oh, adesso capisco perché non si può mentire, in questo linguaggio della mente. È una cosa terribile… Va bene. Va bene, parlami ancora.

— Aspetta.

— No. Avanti!

Sollevò il capo, e mi fissò con il suo sguardo spaventato, ardente, e io parlai di nuovo mentalmente:

Therem, amico mio, non c'è nulla da temere, tra di noi.

Continuò a fissarmi, così pensai che egli non avesse capito; ma aveva capito.

— Ah, ma c'è molto, invece — disse.

Dopo qualche tempo, controllandosi, egli disse, con calma:

— Hai parlato nella mia lingua.

— Ebbene, tu non conosci la mia.

— Hai detto che ci sarebbero state delle parole, lo so… Eppure l'immaginavo come… una comprensione…

— L'empatia è un'altra cosa, benché non sia priva di collegamenti. È stata l'empatia a stabilire la connessione tra noi, questa notte. Ma nel linguaggio mentale vero e proprio, i centri della parola del cervello sono attivati, come…

— No, no, no. Dimmelo dopo, questo. Perché hai parlato con la voce di mio fratello? — La sua voce era tesa.

— A questo non posso e non so rispondere. Non lo so. Parlami di lui.

Nusuth… Il mio fratello della carne, Arek Harth rem ir Estraven. Era di un anno maggiore di me. Sarebbe diventato Lord di Estre. Noi… io ho lasciato la casa, sai, per amor suo. È morto da quattordici anni.

Rimanemmo entrambi in silenzio per qualche tempo. Io non potevo sapere, né chiedergli, cosa si nascondeva dietro le sue parole: gli era costato troppo dire quel poco che aveva detto.

Alla fine gli dissi:

— Parlami con la mente, Therem. Chiamami per nome.

Sapevo che poteva farlo. Il rapporto c'era, o, come avrebbero detto gli esperti, le fasi erano consonanti, e naturalmente fino a quel momento non aveva idea di come alzare volontariamente la barriera. Se fossi stato un Ascoltatore, avrei potuto sentirlo pensare.

— No — disse lui. — Mai. Non ancora…

Ma nessuna forza di emozione, timore, terrore, avrebbe potuto trattenere per molto tempo quella mente insaziabile, rivolta sempre più avanti. Quando ebbe spento di nuovo la luce, improvvisamente lo udii balbettare, nel mio udito interiore: «… Genry…» Perfino parlando con la mente non era in grado di pronunciare bene la «elle».

Risposi subito. Nel buio, egli fece un suono inarticolato di paura, che aveva una lievissima sfumatura di soddisfazione.

— Basta, basta — disse, a voce alta; e dopo qualche tempo finalmente ci addormentammo.

Per lui non fu mai facile. Non che gli mancasse il talento, o che non potesse sviluppare le tecniche, ma la cosa lo turbava profondamente, e non riusciva a darla per scontata. Rapidamente imparò ad alzare le barriere, ma credo che non fosse mai certo di poter contare su di esse. Forse noi tutti ci eravamo comportati così, quando i primi Istruttori erano ritornati, centinaia di anni prima, dal Mondo di Rokanan, per insegnarci quella che venne chiamata «Ultima Arte». Forse un getheniano, essendo singolarmente completo, sente il dialogo telepatico come una violazione di questa condizione completa, una breccia nell'integrità che per lui è difficile, molto difficile tollerare. Forse si trattava del carattere stesso di Estraven, nel quale il candore e la riservatezza erano entrambi forti: ogni parola che lui diceva si levava da un profondo silenzio. Udiva la mia voce, nel dialogo telepatico, come la voce di un morto, la voce di suo fratello. Io non sapevo che cosa, oltre all'amore e alla morte, esistesse tra lui e quel fratello, ma sapevo che, ogni volta che io gli parlavo telepaticamente, qualcosa in lui sobbalzava, si ritraeva, come se io avessi toccato una ferita non ancora rimarginata. Così quell'intimità della mente stabilita tra noi due era un legame, certo, ma un legame oscuro e austero, che non tanto ammetteva altra luce (come mi ero aspettato) bensì mostrava le misure e dimensioni delle tenebre.

E giorno dopo giorno, faticosamente, lentamente, avanzavamo, verso est, sulla immensa pianura di ghiaccio. Il punto mediano, nel tempo, del nostro viaggio, secondo il programma, e cioè il trentacinquesimo giorno, Odorny Anner, ci trovò indietro, rispetto al punto mediano nello spazio. Secondo il misuratore della slitta, noi avevamo realmente viaggiato per quattrocento miglia, ma probabilmente solo tre quarti di quella distanza valevano come reale avanzata, e potevamo valutare solo approssimativamente quanto fosse il nostro vero ritardo, e quanto ancora rimaneva da percorrere. Avevamo speso giorni, miglia, razioni nella nostra lunga fatica per salire sul Ghiaccio. Estraven non era preoccupato quanto me, dalle centinaia di miglia che ancora si stendevano davanti a noi.

— La slitta è più leggera — mi disse, quel giorno. — Verso la fine sarà ancora più leggera; e potremo diminuire le razioni, se sarà necessario. Abbiamo mangiato molto bene, lo sai.

Pensai che facesse dell'ironia, ma avrei dovuto saperlo, che non era così.

Nel quarantesimo giorno e nei due successivi, fummo bloccati da una tormenta. Durante quelle lunghe ore di inattività nella tenda, Estraven dormì quasi in continuazione, e non mangiò nulla, pur bevendo orsh o acqua zuccherata, alle ore dei pasti. Insisté perché io mangiassi, anche se usando metà razioni.

— Non hai esperienza di digiuno — mi disse.

Fui umiliato da queste parole.

— Quanta ne puoi avere, tu… Lord di un Dominio, e Primo Ministro?…

— Genry, noi pratichiamo il digiuno e la privazione dal cibo finché non siamo degli esperti in questo campo. Mi è stato insegnato il digiuno quando ero bambino, a casa, a Estre, e poi dagli Handdarata nella Fortezza di Rotherer. A Erhenrang ho perduto la pratica, è vero, ma ho ricominciato ad addestrarmi a Mishnory… Fa' come ti dico, amico mio; so quel che faccio.

Era vero. Sia per me che per lui.

Ci furono altri quattro giorni di gelo pungente, con temperature mai superiori ai quindici gradi sotto lo zero, e poi venne un'altra tormenta, che portata da un vento d'uragano ci giunse addosso da oriente. Pochi minuti dopo le prime violente folate, la neve giunse così fitta, sulle ali del vento, che non riuscii più a vedere Estraven, il quale era a meno di due metri da me. Avevo voltato le spalle a lui e alla slitta e alla neve appiccicosa, soffocante, accecante, per riprendere fiato, e quando un attimo dopo mi voltai, lui non c'era più. La slitta era scomparsa. Non c'era nulla, là. Feci qualche passo, nella direzione in cui slitta ed Estraven si erano trovati, e cercai a tentoni. Gridai, e non riuscii a udire la mia stessa voce. Ero sordo e solo in un universo solido, reso solido da minuscoli granelli di neve pungente, grigia, implacabile. Fui preso dal panico e cominciai ad avanzare a tentoni, chiamando freneticamente con la mente:

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