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Un appartamento surreale, illuminato da luci al neon e pavimenti di maiolica bianca. Il bunker era munito di videocitofono, aveva due accessi, impossibili da identificare dall'esterno. Praticamente quando si arrivava non si trovavano porte, poiché in realtà queste si aprivano solo lasciando scorrere pareti di cemento armato su binari. Quando c'era pericolo di perquisizioni il boss, dalla sala da pranzo, attraverso una botola nascosta raggiungeva una serie di cunicoli, ben undici, collegati tra loro, che sottoterra costituivano una specie di "ridotta", l'ultimo rifugio, dove Sandokan aveva fatto sistemare delle tende da campo. Un bunker nel bunker. Per beccarlo, nel 1998 la DIA aveva fatto appostamenti per un anno e sette mesi, arrivando a sfondare il muro con una sega elettrica per accedere al nascondiglio. Solo dopo, quando Francesco Schiavone si era arreso, è stato possibile individuare l'accesso principale nel deposito di una villa in via Salerno, tra cassette di plastica vuote e attrezzi da giardinaggio. Nel bunker non mancava nulla. C'erano due frigoriferi che contenevano generi alimentari sufficienti a sfamare almeno sei persone per una dozzina di giorni. Un'intera parete era occupata da un sofisticato impianto stereo, con videoregistratori e proiettori. La Scientifica della Questura di Napoli aveva impiegato dieci ore per controllare gli impianti di allarme e i sistemi di chiusura dei due accessi. Nel bagno non mancava la vasca con idromassaggio. Tutto sottoterra, vivendo come in una tana, tra botole e cunicoli.

Walter invece non si nascondeva sotto terra. Quando era latitante arrivava in paese per le riunioni più importanti. Tornava a casa alla luce del sole, con il suo corteo di guardaspalle certo della inaccessibilità della villa. La polizia lo arrestò quasi per caso. Stavano facendo i soliti controlli. Otto, dieci, dodici volte al giorno poliziotti e carabinieri solitamente vanno a casa delle famiglie dei latitanti, controllano, visitano, perquisiscono, ma soprattutto cercano di sfiancare i nervi e rendere sempre meno solidale la famiglia alla scelta di latitanza del proprio congiunto. La signora Schiavone riceveva i poliziotti sempre con gentilezza e spavalderia. Sempre serena nell'offrire tè e biscotti sistematicamente rifiutati. Un pomeriggio però la moglie di Walter era tesa già al citofono, dalla lentezza con cui aveva aperto il cancello i poliziotti avevano intuito subito che quella giornata aveva qualcosa di anomalo. Mentre giravano per la villa, la signora Schiavone li seguiva attaccata ai talloni e non gli parlava dal basso della scalinata lasciando rimbombare le parole per tutta la villa, come solitamente accadeva. Trovarono camicie maschili appena stirate raccolte in pila sul letto, di misura troppo grande per essere indossate dal figlio. Walter era lì. Era tornato a casa. I poliziotti capirono e iniziarono a disperdersi nelle stanze della villa per cercarlo. Lo beccarono mentre tentava di scavalcare il muro. Lo stesso che aveva fatto costruire per rendere impenetrabile la sua villa gli impedì di scappare con agilità. Acciuffato come un ladruncolo che sgambetta cercando appigli su una parete liscia. La villa venne subito sequestrata, ma per circa sei anni nessuno ne ha mai realmente preso possesso. Walter ordinò di sottrarre tutto il possibile. Se non poteva più essere a sua disposizione non doveva più esistere. O sua o di nessuno. Fece scardinare le porte, staccare gli infissi, togliere il parquet, divellere i marmi dalle scale, smantellare i preziosi camini, togliere persino le ceramiche dai bagni, estirpare i passamani in legno massello, i lampadari, la cucina, portare via i mobili ottocenteschi, le vetrine, i quadri. Diede ordine di disseminare la casa di copertoni e gli fece dare fuoco così da rovinare le pareti, gli intonaci, compromettere le colonne. Anche in questo caso però sembra aver lasciato un messaggio. L'unica cosa inalterata, lasciata intatta, è la vasca costruita al secondo piano, il vero vezzo del boss. Una vasca principesca costruita nel salone al secondo piano. Adagiata su tre gradoni con un volto di leone dorato da cui ruggiva l'acqua. Una vasca posizionata dietro una finestra con arco a botte che dava direttamente sul panorama del giardino della villa. Una traccia della sua potenza di costruttore e di camorrista, come un pittore che ha cancellato il suo dipinto, risparmiando però la sua firma sulla tela. Passeggiando lentamente per Hollywood, quelle che credevo fossero voci di esagerata leggenda mi paiono invece corrispondere al vero. I capitelli dorici, l'imponenza delle strutture dell'edificio, il doppio timpano, la vasca in camera, e soprattutto le scalinate all'entrata, sono i calchi della villa di Scarface.

Mi aggiravo per quelle stanze annerite, mi sentivo il petto gonfio come se gli organi interni fossero diventati un unico, grande cuore. Lo sentivo battere in ogni parte e sempre più forte. La saliva mi si era prosciugata a forza di fare lunghi respiri per calmare l'ansia. Se qualche palo del clan che ancora presidiava la villa mi avesse sorpreso mi avrebbe riempito di mazzate e avrei potuto anche strillare come un maiale sgozzato; nessuno avrebbe sentito. Ma evidentemente nessuno mi vide entrare o forse nessuno presidiava più la villa. Mi cresceva dentro una rabbia pulsante, mi passavano alla mente come un unico blob di visioni smontate le immagini degli amici emigrati, quelli arruolati nei clan e quelli nell'esercito, i pomeriggi pigri in queste terre di deserto, l'assenza di ogni cosa tranne gli affari, i politici spugnati dalla corruzione e gli imperi che si edificavano nel nord dell'Italia e in mezz'Europa lasciando qui soltanto monnezza e diossina. E mi venne voglia di prendermela con qualcuno. Dovevo sfogarmi. Non ho resistito. Sono salito con i piedi sul bordo della vasca e ho iniziato a pisciarci dentro. Un gesto idiota, ma più la vescica si svuotava più mi sentivo meglio. Quella villa sembrava la conferma di un luogo comune, la realizzazione concreta di una diceria. Avevo la sensazione ridicola che da una stanza stesse per uscire Tony Montana, e accogliendomi con gesticolante, impettita arroganza stesse per dirmi: "Tutto quello che ho al mondo sono le mie palle e la mia parola. Non le infrango per nessuno, capito?". Chissà se Walter avrà anche sognato e immaginato di morire come Montana, cascando dall'alto nel suo salone d'entrata crivellato dai proiettili piuttosto che finire i suoi giorni in cella consumato dal morbo di Basedow che gli stava corrodendo gli occhi e facendo esplodere la pressione sanguigna.

Non è il cinema a scrutare il mondo criminale per raccoglierne i comportamenti più interessanti. Accade esattamente il contrario. Le nuove generazioni di boss non hanno un percorso squisitamente criminale, non trascorrono le giornate per strada avendo come riferimento il guappo di zona, non hanno il coltello in tasca, né sfregi sul volto. Guardano la tv, studiano, frequentano le università, si laureano, vanno all'estero e soprattutto sono impegnati nello studio dei meccanismi d'investimento. Il caso del film JZ Padrino è eloquente. Nessuno all'interno delle organizzazioni criminali, siciliane come campane, aveva mai usato il termine padrino, frutto invece di una traduzione poco filologica del termine inglese godfather. Il termine usato per indicare un capofamiglia o un affiliato è sempre stato compare. Dopo il film però le famiglie mafiose d'origine italiana negli Stati Uniti iniziarono a usare la parola padrino, sostituendo quella ormai poco alla moda di compare e compariello. Molti giovani italoamericani legati alle organizzazioni mafiose imitarono gli occhiali scuri, i gessati, le parole ieratiche. Lo stesso boss John Gotti si volle trasformare in una versione in carne e ossa di don Vito Corleone. Anche Luciano Liggio, boss di Cosa Nostra, si faceva fotografare sporgendo la mascella come il capofamiglia de II Padrino.

Mario Puzo non si era ispirato a un boss siciliano, ma alla storia e all'aspetto di un boss della Pignasecca, il mercato del centro storico di Napoli, Alfonso Tieri che prese posto — dopo la morte di Charles Gambino — al vertice delle famiglie mafiose italiane egemoni negli Stati Uniti. Antonio Spavone "'o ma-lommo", il boss napoletano legato a Tieri, aveva dichiarato in un'intervista a un giornale americano che "se i siciliani aveva-vo insegnato a stare zitti e muti, i napoletani avevano fatto capire al mondo come ci si comporta quando si comanda. Fare capire con un gesto che comandare è meglio che fottere". La maggior parte degli archetipi criminali, l'acme del carisma mafioso proveniva da una manciata di chilometri in Campania. Anche Al Capone era campano d'origine. La sua famiglia proveniva da Castellammare di Stabia. Fu il primo boss a misurarsi col cinema. Il suo soprannome, Scarface, lo sfregiato, dovuto a una cicatrice sulla guancia, poi ripreso nel 1983 da

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