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Il 24 gennaio 2005 quando sono arrivato era a terra sulle mattonelle, morto. Un nugolo di carabinieri camminava nervoso dinanzi al negozio dove era avvenuto l'agguato. L'ennesimo. "Ormai un morto al giorno è la cantilena di Napoli" dice un ragazzo nervosissimo che passa di là. Si ferma, si scappella dinanzi al morto che non vede, e va via. Quando i killer sono entrati nel negozio stringevano già i calci delle pistole. Era chiaro che non volevano rapinare ma uccidere, punire. Attilio ha tentato di nascondersi dietro al bancone. Sapeva che non serviva a nulla, ma magari ha sperato segnalasse che era disarmato che non c'entrava nulla, che non aveva fatto niente. Aveva capito forse che quei due erano soldati della camorra, della guerra voluta dai Di Lauro. Gli hanno sparato, hanno scaricato i loro caricatori e dopo il "servizio" sono usciti, qualcuno dice con calma, come se avessero acquistato un telefonino, non massacrato un individuo. Attilio Romano è lì. Sangue ovunque. Sembra quasi che l'anima gli sia scolata via da quei fori di proiettile che lo hanno marchiato in tutto il corpo. Quando vedi tanto sangue per terra inizi a tastarti, controlli che non sia ferito tu, che in quel sangue non ci sia anche il tuo, inizi a entrare in un'ansia psicotica, cerchi di assicurarti che non ci siano ferite sul tuo corpo, che per caso, senza che te ne sia accorto, ti sei ferito. E comunque non credi che in un uomo solo possa esserci tanto sangue, sei certo che in te ce n'è sicuramente molto meno. Quando ti accerti che quel sangue non l'hai perso tu, non basta: ti senti svuotato anche se l'emorragia non è tua. Tu stesso diventi emorragia, senti le gambe che ti mancano, la lingua impastata, senti le mani sciolte in quel lago denso, vorresti che qualcuno ti guardasse l'interno degli occhi per controllare il livello di anemia. Vorresti fermare un infermiere e chiedere una trasfusione, vorresti avere lo stomaco meno chiuso e mangiare una bistecca, se riesci a non vomitare. Devi chiudere gli occhi, ma non respirare. L'odore di sangue rappreso che ormai ha impregnato anche l'intonaco della stanza sa di ferro rugginoso. Devi uscire, andare fuori, andare all'aria prima che gettino la segatura sul sangue perché l'impasto genera un odore terribile che fa crollare ogni resistenza al vomito.

Non capivo davvero perché avevo ancora una volta scelto di andare sul posto dell'agguato. Di una cosa ero certo: non è importante mappare ciò che è finito, ricostruire il dramma terribile che è accaduto. È inutile osservare i cerchi di gesso intorno ai rimasugli dei bossoli che quasi sembrano un gioco infantile di biglie. Bisogna invece riuscire a capire se qualcosa è rimasto. Questo forse vado a rintracciare. Cerco di capire cosa galleggia ancora d'umano; se c'è un sentiero, un cunicolo scavato dal verme dell'esistenza che possa sbucare in una soluzione, in una risposta che dia il senso reale di ciò che sta accadendo.

Il corpo di Attilio è ancora per terra quando arrivano i familiari. Due donne, forse la madre e la moglie, non so. Nel percorso si stringono, camminano avvinghiate, spalla incollata all'altra spalla, ormai sono le uniche a sperare che non sia come hanno già capito e sanno benissimo. Ma sono allacciate, si sostengono l'una con l'altra, un attimo prima di trovarsi dinanzi alla tragedia. È in quegli attimi, nei passi delle mogli e delle madri verso l'incontro con il corpo crivellato, che si intuisce un'irrazionale, folle, balorda fiducia nel desiderio umano. Sperano, sperano, sperano e sperano ancora che ci sia stato un errore, una bugia nel passaparola, un fraintendimento del maresciallo dei carabinieri che annunciava l'agguato e l'assassinio. Come se ostinarsi maggiormente nel credere qualcosa possa davvero mutare il corso degli eventi. In quel momento la pressione arteriosa della speranza raggiunge una massima assoluta senza minima alcuna. Ma non c'è nulla da fare. Le urla, i pianti mostrano la forza di gravità del reale. Attilio è lì per terra. Lavorava in un negozio di telefonia e poi per arrotondare in un cali center. Lui e sua moglie Natalia non avevano ancora un bambino. Non c'era ancora il tempo, non c'era forse la possibilità economica di mantenerlo e magari aspettavano la possibilità di farlo crescere altrove. Le giornate si consumavano in ore di lavoro e quando c'è stata la possibilità e qualche risparmio, Attilio ha creduto buona cosa poter diventare azionista di quel negozio dove ha trovato la morte. L'altro socio però ha una lontana parentela con Pariante, il boss di Bacoli, un colonnello di Di Lauro, uno di quelli che gli si sono messi contro. Attilio non sa o quantomeno sottovaluta, si fida del suo socio, gli basta sapere che è una persona che vive del suo mestiere, faticando molto, troppo. Insomma in questi luoghi non si decide della propria sorte, il lavoro sembra essere un privilegio, qualcosa che una volta raggiunto, si tiene stretto, quasi come una fortuna che ti è capitata, un destino benevolo che ha voluto centrarti, anche se questo lavoro ti porta fuori casa per tredici ore al giorno, ti lascia mezza domenica libera e mille euro al mese che a stento ti bastano per pagare un mutuo. Comunque sia arrivato il lavoro, bisogna ringraziare e non fare troppe domande a sé e al destino.

Ma qualcuno fa cadere il sospetto. E allora il corpo di Atti lio Romano rischia di venire sommato a quello dei soldati di camorra ammazzati in questi mesi. I corpi sono gli stessi, le ragioni della morte sono però diverse anche se si cade sullo stesso fronte di guerra. Sono i clan che decidono chi sei, quale parte occupi nel risiko del conflitto. Le parti sono determinate indipendentemente dalle volontà. Quando gli eserciti scendono per strada non è possibile tracciare una dinamica esterna alla loro strategia, il senso lo concedono loro, i motivi, le cause. In quell'istante, quel negozio dove Attilio lavorava era espressione di un'economia legata al gruppo degli Spagnoli e quell'economia andava sconfitta.

Natalia, Nata come la chiamava Attilio, è una ragazza stordita dalla tragedia. Si era sposata appena quattro mesi prima, ma non viene consolata, al funerale non c'è Presidente della Repubblica, ministro, sindaco che le tiene la mano. Meglio così forse, si risparmia la messa in scena istituzionale. Ma ciò che aleggia sulla morte di Attilio è un'ingiusta diffidenza. E la diffidenza è l'assenso silenzioso che viene concesso all'ordine della camorra. L'ennesimo consenso all'agire dei clan. Ma i colleghi del cali center di Attila, come lo chiamavano per la sua violenta voglia di vivere, organizzano fiaccolate e si ostinano a camminare anche se sul percorso della manifestazione avvengono ancora agguati, il sangue ancora traccia la strada. Procedono, accendono luci, fanno capire, tolgono ogni onta, cassano ogni sospetto. Attila è morto sul lavoro e con la camorra non aveva rapporto alcuno.

In realtà dopo ogni agguato il sospetto grava su tutti. Troppo perfetta è la macchina dei clan. Non c'è errore. C'è punizione. E così è al clan che viene data fiducia, non ai familiari che non capiscono, non ai colleghi di lavoro che lo conoscono, non alla biografia di un individuo. In questa guerra le persone vengono stritolate senza colpa alcuna, vengono rubricate negli effetti collaterali o nei probabili colpevoli.

Un ragazzo, Dario Scherillo, ventisei anni, ucciso il 26 dicembre 2004, mentre camminava in motocicletta viene colpito in faccia, al petto, lasciato morire a terra nel suo sangue che ha il tempo di impregnare completamente la camicia. Un ragazzo innocente. Gli è bastato essere di Casavatore, un paese martoriato da questo conflitto. Per lui ancora silenzio, incomprensione. Nessuna epigrafe, né targa, né ricordo. "Quando si è uccisi dalla camorra, non si sa mai" mi dice un vecchio che si fa il segno della croce nei pressi del luogo dove Dario è caduto. Il sangue a terra è di un rosso vivo. Non tutto il sangue ha lo stesso colore. Quello di Dario è porpora, sembra ancora scorrere. I mucchi di segatura stentano ad assorbirlo. Un'auto dopo un po', approfittando dello spazio vuoto, parcheggia sulla macchia di sangue. E tutto finisce. Tutto si copre. È stato ammazzato per dare un messaggio al paese, un messaggio di carne chiuso in una busta di sangue. Come in Bosnia, come in Algeria, come in Somalia, come in qualsiasi confusa guerra interna, quando è difficile capire a che parte appartieni, basta uccidere il tuo vicino, il cane, l'amico, o un tuo familiare. Una voce di parentela, una somiglianza è condizione sufficiente per diventare bersaglio. Basta che passi per una strada per ricevere subito un'identità di piombo. L'importante è concentrare il più possibile dolore, tragedia e terrore. Con l'unico obiettivo di mostrare la forza assoluta, il dominio incontrastato, l'impossibilità di opporsi al potere vero, reale, imperante. Sino ad abituarsi a pensare come coloro che potrebbero risentirsi di un gesto o di una parola. Stare attenti, guardinghi, silenziosi, per salvarsi la vita, per non toccare il filo ad alta tensione della vendetta. Mentre mi allontanavo, mentre portavano via Attilio Romano, iniziai a capire. A capire perché non c'è momento in cui mia madre non mi guardi con preoccupazione, non comprendendo perché non me ne vado, perché non fuggo via, perché continuo a vivere in questi luoghi d'inferno. Cercavo di ricordare da quando sono nato quanti sono i caduti, gli ammazzati, i colpiti.

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