"Forza, parlate qua dentro, dite quello che volete…"
A nessuno parve strano il mio gesto, a nessuno venne in mente di stare davanti a uno sbirro o un giornalista. Qualcuno iniziò a urlacchiare qualche insulto al registratore, poi un ragazzino spinto da qualche mia domanda mi raccontò la sua carriera. E pareva non vedesse l'ora di farlo.
"Prima lavoravo in un bar, prendevo duecento euro al mese; con le mance arrivavo a duecentocinquanta e non mi piaceva come lavoro. Io volevo lavorare nell'officina con mio fratello, ma non mi hanno preso. Nel Sistema prendo trecento euro a settimana, ma se vendo bene prendo anche una percentuale su ogni mattone (il lingotto di hashish) e posso arrivare a trecentocinquanta-quattrocento euro. Mi devo fare il mazzo, ma alla fine qualcosa in più me la danno sempre."
Dopo una mitragliata di rutti che due ragazzetti vollero registrare, il ragazzino che veniva chiamato Satore, un nome a metà tra Sasà e Totore, continuò:
"Prima stavo sempre in mezzo alla strada, mi scocciava il fatto di non avere il motorino e me la dovevo fare a piedi o con gli autobus. Mi piace come lavoro, tutti mi rispettano e poi posso fare quello che voglio. Mo però mi hanno dato il ferro e devo sempre stare qua. Terzo Mondo, Case dei Puffi. Sempre chiuso qua dentro, avanti e indietro. E non mi piace." Satore mi sorrise e poi urlò ridendo nel registratore: "Fatemi uscire da qua!… Diteglielo al masto!" Li avevano armati, gli avevano dato il ferro, la pistola, e un territorio limitatissimo in cui lavorare. Kit Kat poi continuò a parlare nel registratore poggiando le labbra ai fori del microfono, registrando anche il suo fiato.
"Io voglio aprirmi una ditta per ristrutturare le case oppure un magazzino o un negozio, il Sistema mi deve dare i soldi per aprire, poi al resto ci penso io, pure a chi sposarmi. Mi devo sposare non una di qua, ma una modella, nera o tedesca." Pikachu cacciò un mazzo di carte dalla tasca, quattro di loro cominciarono a giocare. Gli altri si alzarono stiracchiandosi, ma nessuno si tolse il giubbotto. Continuai a chiedere a Pikachu delle paranze, ma stava iniziando a essere infastidito dalla mia insistenza. Mi disse che c'era stato qualche giorno prima a casa di una paranza e che avevano smantellato tutto, era rimasto solo un lettore Mp3 che ascoltavano quando andavano a fare i pezzi. L'Mp3 che ascoltavano gli uomini della paranza mentre andavano ad ammazzare, la raccolta di file musicali, penzolava al collo di Pikachu. Con una scusa gli chiesi di prestarmelo qualche giorno. Lui fece una risata come per dirmi che non si offendeva se l'avevo preso per uno così stupido, per un idiota, che presta le cose. Così glielo comprai, cacciai cinquanta euro e ottenni il lettore. Ficcai subito le cuffie nelle orecchie, volevo capire qual era il sottofondo musicale della mattanza. Mi aspettavo musica rap, rock pesante, heavy metal, invece era un continuo susseguirsi di brani neomelodici e di musica pop. In America si spara gonfiandosi col rap, i killer di Secondigliano andavano a uccidere ascoltando canzoni d'amore.
Pikachu iniziò a smazzare le carte chiedendomi se volevo partecipare, ma a carte sono sempre stato incapace. Così mi alzai dal tavolo. I camerieri della pizzeria avevano la stessa età dei ragazzi di Sistema e li guardavano ammirati, senza neanche avere il coraggio di servirli. Ci pensava direttamente il proprietario. Qui lavorare come garzone, cameriere, o in un cantiere è come un'ignominia. Oltre ai soliti eterni motivi: lavoro nero, ferie e malattie non pagate, dieci ore di media al giorno, non hai speranza di poter migliorare la tua condizione. Il Sistema concede almeno l'illusione che l'impegno sia riconosciuto, che ci sia la possibilità di fare carriera. Un affiliato non verrà mai visto come un garzone, le ragazzine non penseranno mai di essere corteggiate da un fallito. Questi ragazzini imbottiti, queste ridicole vedette simili a marionette da football americano, non avevano in mente di diventare Al Capone, ma Flavio Briatore, non un pistolero, ma un uomo d'affari accompagnato da modelle: volevano diventare imprenditori di successo.
Il 19 gennaio viene ammazzato il quarantacinquenne Pasquale Paladini. Otto colpi. Al petto e alla testa. Dopo poche ore sparano nelle gambe ad Antonio Auletta di diciannove anni. Ma il 21 gennaio sembra esserci una svolta. La voce inizia subito a correre, senza avere bisogno di agenzie di stampa. Cosimo Di Lauro è stato arrestato. Il reggente della cosca, il leader della mattanza, secondo le accuse della Procura Antimafia di Napoli, il comandante del clan secondo i pentiti. Cosimo si nascondeva in un buco di quaranta metri quadri, dormendo su un letto quasi sfondato. L'erede di un sodalizio criminale capace di fatturare solo con il narcotraffico cinquecentomila euro al giorno, e che poteva disporre di una villa da cinque milioni di euro nel cuore di uno dei quartieri più miseri d'Italia, era costretto a rintanarsi in un buco fetente e microscopico non lontano dalla sua presunta reggia.
Una villa spuntata dal nulla in via Cupa dell'Arco, vicino alla casa di famiglia dei Di Lauro. Un'elegante masseria del Settecento, ristrutturata come una villa pompeiana. Impluvium, colonne, stucchi e gessi, controsoffittature e scalinate. Una villa di cui nessuno sospettava l'esistenza. Nessuno conosceva i proprietari formali, i carabinieri stavano indagando ma nel quartiere nessuno aveva dubbi. Era per Cosimo. I carabinieri scoprirono la villa per caso, superando le spesse mura di cinta, trovarono dentro alcuni operai che appena videro le divise scapparono. La guerra non aveva permesso che la villa fosse ultimata, che fosse riempita di mobili e quadri, che divenisse la reggia del reggente, il cuore d'oro del corpo marcescente dell'edilizia di Secondigliano.
Quando Cosimo sente il calpestio degli anfibi dei carabinieri che lo stanno per arrestare, quando sente rumoreggiare i fucili, non tenta di scappare, non si arma nemmeno. Si mette davanti allo specchio. Bagna il pettine, tira indietro i capelli dalla fronte e poi li lega in un codino all'altezza della nuca, lasciando la zazzera riccia cascare sul collo. Indossa un dolcevita scuro e un impermeabile nero. Cosimo Di Lauro si abbiglia da pagliaccio del crimine, da guerriero della notte, scende per le scale impettito. È claudicante, qualche anno prima è caduto rovinosamente dalla moto e la gamba zoppa è la dote avuta da quell'incidente. Ma quando scende dalle scale ha pensato anche a questo. Poggiandosi sugli avambracci dei carabinieri che lo scortano riesce a non mostrare il suo handicap, a camminare con passo normale. I nuovi sovrani militari dei sodalizi criminali napoletani non si presentano come guappi di quartiere, non hanno gli occhi sgranati e folli di Cutolo, non pensano di doversi atteggiare come Luciano Liggio o come caricature di Lucky Luciano e Al Capone. Matrix, The Croio, Pulp Fiction riescono con maggiore capacità e velocità a far capire cosa vogliono e chi sono. Sono modelli che tutti conoscono e che non abbisognano di eccessive mediazioni. Lo spettacolo è superiore al codice sibillino deH'ammiccamento o alla circoscritta mitologia del crimine da quartiere malfamato. Cosimo fissa le telecamere e gli obiettivi dei fotografi, abbassa il mento, sporge la fronte. Non si è fatto trovare come Brusca con un jeans liso e una camicia sporca di salsa, non è impaurito come Rima portato di corsa sopra un elicottero, né sorpreso con il volto pieno di sonno come capitò a Misso, boss della Sanità. È un uomo formato nella società dello spettacolo e sa di andare in scena. Si presenta come un guerriero che si è imbattuto nella sua prima sosta. Sembra che stia pagando per il troppo coraggio, l'eccessivo zelo nella guerra che ha condotto. Questo racconta il suo volto. Non sembra che sia tratto in arresto, ma che muti semplicemente il luogo del suo comando. Innescando la guerra sapeva di andare incontro all'arresto. Ma non aveva scelta. O guerra o morte. E l'arresto vuole rappresentarlo come la dimostrazione della sua vittoria, il simbolo del suo coraggio capace di sprezzare ogni sorta di tutela di sé, pur di salvare il sistema della famiglia.