Era un abitino da bambina, di broccato di seta, coperto da un ricamo di perle scaramazze, macchiato dal sale e ingiallito dagli anni. Sul corpetto le perle erano disposte a formare un emblema che Ged conosceva: la doppia freccia degli dèi-fratelli dell’impero di Kargad, sovrastata da una corona reale.
La vecchia — rugosa, sporca, vestita di un informe sacco di pelle di foca — indicò l’abitino di seta e se stessa, e sorrise: un dolce sorriso svanito, come quello di un neonato. Da un nascondiglio nella gonna del vestitino estrasse un oggetto minuscolo e lo porse a Ged. Era un frammento di metallo scuro, forse un pezzo di un gioiello rotto, la metà di un anello spezzato. Ged lo guardò, ma la vecchia gli accennò di prenderlo e non fu soddisfatta se non quando lui lo prese; poi annuì e sorrise di nuovo: gli aveva fatto un dono. Ma avvolse con gran cura l’abitino negli stracci bisunti, e ritornò ciabattando nella capanna per nascondere quell’indumento finissimo.
Ged ripose l’anello spezzato nella tasca della tunica, quasi con la stessa cura, poiché aveva il cuore colmo di pietà. Ora intuiva che quei due potevano essere figli di qualche famiglia reale dell’impero di Kargad: un tiranno o un usurpatore che non aveva osato spargere il sangue reale li aveva fatti abbandonare, a vivere o a morire, su un’isoletta inesplorata lontano da Karego-At. Uno era stato un ragazzetto di otto o dieci anni, forse, e l’altra una robusta principessina vestita di seta e di perle; ed erano vissuti, e avevano continuato a vivere soli per cinquant’anni, su una roccia in mezzo all’oceano, principe e principessa della desolazione.
Ma la verità di quell’intuizione non la scoprì fino a quando, molti anni dopo, la ricerca dell’anello di Erreth-Akbe lo condusse nelle Terre di Kargad e alle Tombe di Atuan.
La sua terza notte sull’isola si schiarì in un’aurora pallida e calma. Era il giorno del solstizio d’inverno, il giorno più corto dell’anno. La sua barchetta di legno e di magia, di rottami e d’incantesimi, era pronta. Aveva cercato di dire ai vecchi che li avrebbe condotti in qualunque terra, a Gont o a Spevy o alle Torikles; li avrebbe lasciati anche su qualche spiaggia solitaria di Karego-At, se gliel’avessero chiesto, sebbene le acque karg non fossero sicure per uno dell’arcipelago che vi si avventurasse. Ma loro non volevano lasciare quell’isola desolata. La vecchia non sembrava capace di comprendere ciò che lui cercava di spiegare a gesti e a parole sommesse; il vecchio capì, e rifiutò. Tutti i suoi ricordi di altre terre e di altri uomini erano un incubo infantile di sangue e di giganti e di urla: Ged glielo leggeva in faccia, mentre quello scuoteva e scuoteva il capo.
E così quel mattino Ged riempì d’acqua al pozzo un piccolo otre di pelle di foca; e poiché non poteva ringraziare i vecchi per il fuoco e il cibo che gli avevano offerto, e non aveva doni da fare alla vecchia come avrebbe desiderato, fece ciò che poté, e gettò un incantesimo su quella fonte salmastra e incostante. L’acqua sgorgò tra la sabbia dolce e limpida come una sorgente montana tra le vette di Gont, e non s’inaridì mai più. Per questo, adesso quel luogo di dune e di rocce figura sulle carte e porta un nome: i marinai lo chiamano isola dell’Acqua di Fonte. Ma la capanna non c’è più, e le tempeste di molti inverni non hanno lasciato traccia dei due che vi trascorsero la vita e vi morirono soli.
I vecchi restarono nascosti nella capanna, come se temessero di guardare, quando Ged spinse in acqua la barca dalla sabbiosa estremità meridionale dell’isola. Lasciò che il vento del mondo, che spirava costante dal nord, riempisse la vela intessuta d’incantesimi, e si avventurò veloce sul mare.
Ora, questa ricerca marina di Ged era molto strana, perché come lui ben sapeva era un cacciatore che non sapeva cosa fosse ciò che cacciava, né dove potesse essere in tutto Earthsea. Doveva cercare la preda con l’intuizione e affidandosi alla sorte, così come quella aveva dato la caccia a lui. Ognuno di loro era cieco alla natura dell’altro: Ged era sconcertato dalle ombre impalpabili allo stesso modo che l’ombra era fuorviata dalla luce del giorno e dalle cose solide. Ged aveva una sola certezza: adesso lui era veramente il cacciatore e non la selvaggina. Perché l’ombra, dopo averlo spinto con l’inganno sulle rocce, avrebbe potuto averlo in sua balìa mentre giaceva più morto che vivo sulla spiaggia o vagava alla cieca nelle tenebre tra le dune tempestose: ma non aveva atteso quell’occasione. L’aveva ingannato ed era subito fuggita via, senza osare affrontarlo. Ged capiva che Ogion aveva avuto ragione: l’ombra non poteva attingere al suo potere, finché lui la contrastava. Perciò doveva continuare a contrastarla e a inseguirla, sebbene la pista fosse fredda su quei vasti mari e lui non avesse altra guida che il capriccio del vento del mondo, che spirava verso sud, e la vaga intuizione che a sud o a est c’era la strada giusta da seguire.
Prima del calar della notte scorse lontano, sulla sinistra, la lunga e indistinta costa di una grande terra che doveva essere Karego-At. Era sulle strade marittime dei barbari bianchi. Stette in guardia, caso mai scorgesse una lunga nave o una galea dei karg; e mentre navigava nella sera rosseggiante ricordò quel mattino della sua infanzia nel villaggio di Dieci Ontani, i guerrieri piumati, il fuoco, la nebbia. E ripensando a quel giorno capì all’improvviso, con una stretta al cuore, che l’ombra l’aveva ingannato col suo stesso inganno, portando quella nebbia sul mare intorno a lui, quasi traendola dal suo passato, rendendolo cieco al pericolo per trascinarlo a morte.
Mantenne la rotta verso sudest, e la terra scomparve mentre la notte avanzava sull’orlo orientale del mondo. Gli incavi tra le onde erano pieni di tenebra mentre le creste brillavano ancora del chiaro riflesso rossiccio dell’occidente. Ged cantò a voce spiegata la Carola dell’Inverno, e i canti delle Gesta del giovane re che ricordava, perché tali sono i canti della festa del solstizio. La sua voce era chiara, ma cadeva nell’immenso silenzio del mare. L’oscurità scese presto, e spuntarono le stelle dell’inverno.
Ged rimase sveglio per tutta la notte più lunga dell’anno, guardando le stelle sorgere alla sua sinistra e roteare sopra la sua testa e sprofondare nelle nere acque lontane, sulla destra, mentre il lungo vento dell’inverno lo portava verso sud sul mare invisibile. Riuscì a dormire solo qualche attimo, di tanto in tanto, ridestandosi bruscamente. La sua barca non era una vera imbarcazione, ma per più della metà era incantesimo e magia e per il resto era fatta di semplici tavole e di legno buttato a riva dalle onde: e se lui avesse allentato gli incantesimi della forma e del legame, presto i pezzi si sarebbero dispersi alla deriva sull’acqua. Anche la vela, intessuta di magia e d’aria, non avrebbe resistito lungamente al vento se lui avesse dormito, ma si sarebbe trasformata a sua volta in uno sbuffo di vento. Gli incantesimi di Ged erano potenti; ma quando la materia su cui tali sortilegi operano è poca cosa, il potere che li fa agire dev’essere rinnovato di momento in momento: perciò Ged non dormì, quella notte. Avrebbe viaggiato più velocemente come falco o delfino, ma Ogion l’aveva ammonito di non cambiar forma e lui conosceva il valore del consiglio del suo maestro. Perciò veleggiò verso sud sotto le stelle che scendevano a ovest, e la lunga notte trascorse lenta finché il primo giorno del nuovo anno illuminò tutto il mare.
Poco dopo il levar del sole Ged vide terra davanti a sé: ma avanzava adagio. Il vento del mondo era caduto allo spuntar del giorno. Ged suscitò nella vela un lieve vento magico, per dirigersi verso quella terra. Quando l’aveva vista si era sentito riprendere dalla paura, la paura angosciosa che lo esortava ad allontanarsi, a fuggire. E seguì quella paura come un cacciatore segue le orme, le larghe impronte unghiute dell’orso, che da un momento all’altro può balzargli addosso dai cespugli. Perciò adesso era vicino: lo sapeva.