«Avrei forse dovuto assumere qualcuno che non era neanche in grado di gestire una rissa da bar? Non temere, hai ripagato abbondantemente la fiducia che avevo riposto in te. Sei mai stato a Las Vegas?»
«Las Vegas nel Nevada?»
«Esatto.»
«No.»
«Ci andiamo questa sera da Madison con un aereo privato, un volo notturno per alti papaveri. Mi sono spacciato per uno di loro e li ho convinti a farci salire.»
«Non ti stanchi mai di dire bugie?» domandò Shadow in tono cortese, per pura curiosità.
«Assolutamente mai. Comunque è la verità. La posta in gioco è molto alta, e noi lavoriamo per i pezzi grossi. Le strade sono pulite, per arrivare a Madison non dovremmo impiegare più di due ore. Spegni le stufe e chiudi la porta. Sarebbe orribile se durante la tua assenza il palazzo finisse in cenere.»
«Da chi andiamo, a Las Vegas?»
Wednesday glielo disse.
Shadow spense i termoconvettori, infilò qualche indumento di ricambio in una borsa da viaggio, si voltò e disse: «Guarda, mi sento un po’ stupido. So che mi hai appena detto chi stiamo andando a trovare, ma inspiegabilmente l’ho già dimenticato. Una specie di vuoto di memoria. Me lo ripeti?».
Wednesday glielo disse di nuovo.
Questa volta gli sembrava di averlo afferrato. Il nome era lì, sulla punta della memoria. Rimpianse di non aver fatto più attenzione. Poi abbandonò il pensiero.
«Chi guida?»
«Tu» rispose Wednesday. Uscirono di casa, scesero la scala di legno e si diressero lungo il sentiero ghiacciato verso la Lincoln nera parcheggiata vicino al marciapiede.
Shadow si mise al volante.
Chi entra in un casinò viene assalito da richiami invitanti, richiami invitanti che solo un uomo di pietra, senza cuore, senza cervello e stranamente sprovvisto di cupidigia potrebbe declinare. Senti: il rumore a mitraglia delle monete d’argento che rotolano e si rovesciano nel vassoietto delle slot machine e a volte finiscono sui tappeti monogrammati viene sostituito dal clangore allettante delle monete introdotte nelle fessure, dalle musichette stridule inghiottite dall’enorme salone, soffocato in un confortevole ronzio di sottofondo quando si arriva ai tavoli da gioco, suoni distanti, perfetti per far scorrere l’adrenalina nelle vene del giocatore.
I casinò possiedono un segreto, un segreto che custodiscono e proteggono e stimano come il più sacro dei loro misteri. La maggior parte della gente non gioca per vincere, come in genere viene pubblicizzato, venduto, dichiarato e sognato. È una facile bugia che dà alla gente l’alibi per entrare da quelle enormi porte sempre aperte.
Il segreto è questo: la gente gioca per perdere. Vengono nei casinò per fare l’esperienza di quell’istante in cui si sentono vivi, in groppa alla ruota della roulette, quando vengono girati come le carte o quando, insieme alle monete, smarriscono nelle fessure anche se stessi. Magari si vantano di qualche vincita, di quella certa notte in cui hanno sbancato il casinò, ma custodiscono come un tesoro, un tesoro prezioso, tutte le volte in cui hanno perso. È una specie di sacrificio rivolto a qualche divinità.
I soldi scorrono in un ininterrotto flusso color verde e argento, passano di mano in mano, dal giocatore al croupier al cassiere alla direzione alla sicurezza per finire nel sancta sanctorum, il luogo più segreto, l’ufficio contabile. Ed è qui, nell’ufficio contabilità del casinò, che vieni a riposare, qui dove i bigliettoni verdi vengono contati, impilati, schedati, in uno spazio che diventa ben presto ridondante man mano che il denaro fluito attraverso il casinò diventa immaginario: una sequenza elettrica di on e off, sequenze che scorrono lungo le linee telefoniche.
Nell’ufficio contabilità vedi tre uomini che contano i soldi sotto l’occhio vitreo delle telecamere di cui sono a conoscenza e sotto lo sguardo da insetto di minitelecamere la cui presenza invece ignorano. Durante il suo turno ogni uomo conta più denaro di quanto ne potrà mai guadagnare in una vita intera. Ognuno di loro, quando dorme, sogna di contare le banconote, di impilarle e legarle con le fascette e di vederne sempre di più che vengono smistate e si perdono. Ognuno di loro almeno una volta alla settimana si è futilmente chiesto se esiste un modo per eludere i controlli di sicurezza del casinò e sparire con tutto quello che riuscirebbe ad arraffare; ognuno di loro ha analizzato il sogno, ha stabilito che è irrealizzabile e si è accontentato di uno stipendio sicuro, evitando lo spettro della prigione e di una tomba senza nome.
E qui, nel sancta sanctorum, ci sono i tre uomini che contano i soldi, e le guardie di sicurezza che li sorvegliano e portano i soldi avanti e indietro; e poi c’è un’altra persona. Il suo abito grigio scuro è impeccabile, anche i capelli sono scuri, è ben rasato e sia il suo volto sia il suo atteggiamento risultano in ogni senso facili da dimenticare. Nessuno degli altri si è accorto della sua presenza e se l’hanno notato l’hanno dimenticato immediatamente.
Quando si arriva alla fine del turno si aprono le porte e l’uomo con l’abito grigio esce dalla stanza e si avvia con gli agenti di sicurezza lungo i corridoi; i passi risuonano ovattati sui tappeti con il monogramma. Le casseforti con il denaro vengono spinte sui carrelli fino a un’area di carico interna dove sono trasferite su furgoni blindati. Quando il cancello della rampa si spalanca per permettere ai veicoli blindati di immettersi nelle strade di Las Vegas all’alba, l’uomo con l’abito grigio varca la soglia senza essere visto, salta sulla rampa e arriva al marciapiede. Non si degna nemmeno di alzare lo sguardo, alla sua sinistra, verso l’imitazione di New York.
Las Vegas è diventata l’interpretazione onirica di una città uscita da un libro di fiabe: qui un castello tratto da un racconto per bambini, lì una piramide nera con la sfinge e luci bianche che fendono l’oscurità come il raggio di un Ufo in manovra d’atterraggio, e dappertutto oracoli al neon e schermi rotanti su cui scorrono messaggi di felicità e fortuna, annunci di cantanti, attori e maghi che si esibiscono stabilmente o in tournée, e luci che scintillano invitanti. Ogni ora un vulcano ha un’eruzione di luci e fiamme. Ogni ora una nave pirata affonda una nave da guerra.
L’uomo in grigio cammina lentamente, a suo agio sui marciapiedi, e sente il denaro fluire per la città. Durante l’estate le strade sono roventi, e passando davanti ai negozi l’impianto di aria condizionata soffia una ventata d’inverno nel clima tropicale che gli ghiaccia il sudore sulla faccia. Adesso, nell’inverno desertico, tira un vento secco che gli piace. Nella sua mente il movimento del denaro forma una delicata struttura reticolare, una specie di ripiglino tridimensionale di luce e movimento. Ciò che lo incanta di questa città nel deserto è la velocità, il modo in cui il denaro si sposta da un punto all’altro e passa di mano in mano: per lui è come uno sballo, l’effetto di una droga che lo spinge, come un tossicomane, a scendere per strada.
Un taxi lo segue a passo d’uomo, a debita distanza. Lui non se ne accorge; non gli viene neanche in mente; ci si accorge così di rado di lui che l’idea di poter essere seguito gli risulta quasi inconcepibile.
Sono le quattro del mattino ed è attirato da un albergo con casinò passato di moda da trent’anni, ancora aperto per un giorno o per sei mesi, fino a quando non lo faranno implodere, non lo abbatteranno per costruire al suo posto un palazzo di divertimenti e dimenticarlo per sempre. Nessuno lo conosce, nessuno si ricorda di lui, ma il bar dell’albergo è sciatto e tranquillo e il fumo delle sigarette ha colorato l’aria d’azzurro e a un piano di sopra c’è qualcuno che in una saletta privata sta per perdere parecchi milioni di dollari a poker. L’uomo in grigio prende posto al bar molti piani sotto, ignorato dalla cameriera. Risuonano subliminali le note di una versione filodiffusa di Why Can’t He Be You? Cinque imitatori di Elvis Presley, ciascuno con una tuta da paracadutista di diverso colore, guardano alla Tv una partita di calcio in differita notturna.