«Mi scusi» dice Salim, «potrebbe dire al signor Blanding che sto ancora aspettando?»
La donna lo guarda come se fosse sorpresa di vederlo ancora lì, come se non fossero stati seduti per due ore e mezzo a poco più di un metro di distanza. «È andato a mangiare» dice. ("E addato a maddare.")
Salim lo sa, sa per istinto che Blanding era l’uomo con il sigaro spento in bocca. «Quando torna?»
La donna scrolla le spalle, addenta il panino. «Sa, ha da fare per il resto della giornata» dice. ("Addare ber il reddo della domata.")
«Mi riceverà, quando torna?» domanda Salim.
Lei scrolla le spalle, si soffia il naso.
Salim ha fame, è sempre più affamato, frustrato e impotente.
Alle tre la donna lo guarda e dice: «Dod doderà.»
«Prego?»
«Il didor Bladdig. Oddi dod dodderà.»
«Posso prendere un appuntamento per domani?»
La donna si asciuga il naso. «Debe dedefonade. Li abbundamendi di prendono doldando per dedefono.»
«Capisco» risponde Salim. E poi sorride: un rappresentante, gli ha ripetuto Fuad prima che partisse da Muscat, in America è nudo, senza il suo sorriso. «Telefonerò domani» dice. Prende la valigetta del campionario e percorre tutte le rampe di scale fino alla strada, dove la pioggia gelata si sta trasformando in nevischio. Salim medita sulla lunga camminata fino all’albergo sulla Quarantaseiesima, sul peso del campionario, e scende dal marciapiede per chiamare con un cenno tutti i taxi gialli che passano, indipendentemente dal fatto che abbiano la luce accesa o spenta, ma nessuno si ferma.
Un taxi addirittura accelera, passandogli davanti, schizzandolo di fangosa acqua gelata sui pantaloni e sul cappotto. Per un attimo Salim prende in considerazione l’idea di gettarsi sotto le ruote di una di quelle vetture che avanzano goffe, però si rende conto che il cognato si preoccuperebbe più della sorte del campionario che della sua, e sa che nessuno, a parte l’amata sorella, soffrirebbe per la sua perdita (Salim ha sempre costituito ragione di lieve imbarazzo per i genitori, e i suoi incontri romantici sono sempre stati necessariamente brevi e piuttosto clandestini); inoltre dubita del fatto che quelle macchine vadano abbastanza veloci per mettere fine alla sua vita.
Un malconcio taxi giallo si avvicina e si ferma, Salim sale, lieto di poter abbandonare quel corso di pensieri.
Il rivestimento del sedile posteriore è stato rattoppato con nastro adesivo grigio; la barriera di plexiglas, semiaperta, è coperta di cartelli "Vietato fumare", e di altri che indicano i costi delle corse per i diversi aeroporti. La voce registrata di qualcuno famoso che Salim non ha mai sentito nominare gli ricorda che deve mettersi la cintura di sicurezza.
«All’Hotel Paramount, per favore» dice.
Il tassista si lancia nel traffico con un grugnito. Ha la barba lunga e porta un maglione pesante, color polvere, e un paio di occhiali neri di plastica. È una giornata grigia, e sta scendendo la sera: Salim si domanda se l’uomo abbia qualche problema agli occhi. I tergicristallo trasformano la strada in una macchia confusa di grigio e colpi di luce.
Proprio davanti a loro spunta dal nulla un camion e il tassista impreca per la barba del Profeta.
Salim cerca di leggere il nome sul cruscotto, ma non riesce a decifrarlo. «Da quanto tempo fai questo lavoro, amico?» gli chiede nella sua lingua.
«Dieci anni» risponde l’altro nello stesso idioma. «Da dove vieni?»
«Da Muscat» dice Salim. «Nell’Oman.»
«Oman. Ci sono stato, nell’Oman. Tanto tempo fa. Hai sentito parlare della città di Ubar?»
«Certamente» risponde Salim. «La Città Perduta delle Torri. Ne hanno trovato i resti nel deserto cinque o dieci anni fa, non ricordo. Eri nella spedizione che ha fatto gli scavi?»
«Diciamo di sì. Era una bella città» dice il tassista. «Certe notti c’erano fino a tre o quattromila persone accampate: tutti i viaggiatori si fermavano a Ubar, e si faceva musica e il vino scorreva come acqua e anche l’acqua scorreva abbondante dando alla città la possibilità di esistere.»
«L’ho sentito anch’io» dice Salim. «Quando è caduta? Mille o duemila anni fa?»
Il tassista non risponde. Sono fermi a un semaforo. Quando la luce diventa verde però il tassista non riparte malgrado l’immediato coro discordante di clacson alle loro spalle. Esitante, Salim fa passare un braccio attraverso il buco nel plexiglas e gli tocca una spalla. L’uomo alza di scatto la testa e preme l’acceleratore per attraversare lentamente l’incrocio.
«Cazzocazzomerda» esclama in inglese.
«Devi essere molto stanco, amico.»
«Guido questo taxi-dimenticato-da-Allah da trenta ore» dice il tassista. «È troppo. E prima avevo dormito cinque ore, e prima ancora avevo guidato per quattordici ore. Siamo a corto di personale, sotto Natale.»
«Spero che tu stia guadagnando un sacco di soldi» dice Salim.
L’uomo sospira. «Non molti. Stamattina ho portato un cliente dalla Cinquantunesima fino all’aeroporto di Newark. Appena arrivati è saltato giù e si è messo a correre e non sono riuscito a trovarlo. Una corsa da cinquanta dollari persa e rientrando in città ho dovuto pagare il pedaggio del tunnel di tasca mia.»
Salim annuisce. «Io ho passato la giornata aspettando di essere ricevuto da un uomo che non aveva nessuna intenzione di ricevermi. Mio cognato mi odia. Sono in America da una settimana e non ho fatto altro che spendere soldi. Non riesco a vendere niente.»
«Che cosa vendi?»
«Porcherie» dice Salim. «Inutili gingilli e brutti souvenir. Porcherie ignobili, brutte, cretine.»
Il tassista sterza sulla destra, aggira un ostacolo e prosegue. Salim si chiede come faccia a guidare con la pioggia, al buio e con gli occhiali neri.
«Cerchi di vendere porcherie?»
«Sì» dice Salim, eccitato e insieme orripilato all’idea di aver finalmente dichiarato ciò che pensa del campionario del cognato.
«E non te le comprano?»
«No.»
«Strano. Se guardi le vetrine dei negozi, sembra che non si venda altro.»
Salim sorride nervosamente.
Un camion sta bloccando la strada: un poliziotto con la faccia rossa in piedi davanti al mezzo gesticola, grida e fa segno di imboccare un’altra strada.
«Andiamo fino all’Ottava e risaliamo verso uptown da quella parte» dice il tassista. Svoltano e scoprono che il traffico è completamente bloccato. Risuonano cacofonici i clacson, ma le automobili rimangono ferme.
Il tassista ciondola sul sedile e il mento gli si piega contro il petto, una, due, tre volte. Poi, gentilmente, comincia a russare. Salim si protende per toccarlo, per svegliarlo, augurandosi di fare la cosa giusta. Mentre lo scuote per una spalla l’uomo si sposta e la mano di Salim gli sfiora la faccia, facendogli inavvertitamente cadere gli occhiali in grembo.
Il tassista apre gli occhi, riprende gli occhiali e se li rimette, ma è troppo tardi. Salim ha visto i suoi occhi. La macchina avanza di pochi metri sotto la pioggia. I numeri scattano sul tassametro.
«Mi ucciderai?» chiede Salim.
L’uomo tiene le labbra strette e Salim lo osserva attraverso lo specchietto retrovisore.
«No» gli dice a voce bassissima.
Sono di nuovo fermi. La pioggia picchietta sul tetto.
Salim comincia a parlare. «Una sera tardi mia nonna è tornata a casa raccontando di aver visto un ifrit, o forse un marid, nel deserto. Noi le abbiamo detto che doveva essersi trattato di una tempesta di sabbia, o del vento, ma lei giurava, diceva di no, diceva di averlo visto in faccia e che nei suoi occhi bruciavano fiamme, come nei tuoi.»
Il tassista sorride, ma siccome gli occhiali scuri gli nascondono gli occhi Salim non sa dire se in quel sorriso ci sia davvero un po’ di buon umore. «Anche le nonne vengono qui» dice.
«Ci sono molti jinn a New York?» chiede Salim.
«No. Non siamo in molti.»
«Ci sono gli angeli, e ci sono gli uomini, che Allah ha creato dal fango, poi c’è il popolo del fuoco, i jinn» dice Salim.