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Lei gli sorrise, e di colpo, per la prima volta, sembrò vulnerabile. Gli batté una pacca sul braccio. «Sembri sconnesso, signor Shadow. Ma sembri anche uno che ce la mette tutta.»

«Dev’essere la condizione umana» disse lui. «Grazie per la compagnia.»

«È stato un piacere. Se sulla strada per Cairo incontri qualche dio ricordati di salutarmelo.» Scese dalla macchina e si avviò al portone di casa. Suonò il campanello senza voltarsi indietro. Shadow aspettò fino a quando il portone non venne aperto e poi premette il piede sull’acceleratore e tornò verso l’autostrada. Attraversò le cittadine di Nomai, Bloomington e Lawndale.

Alle undici di sera cominciò a tremare. Era appena entrato a Middletown. Decise che aveva bisogno di dormire, o perlomeno di smettere di guidare, e si fermò davanti a un Night’s Inn, pagò trentacinque dollari in contanti e in anticipo per una stanza al pianterreno e andò nel bagno. Un triste scarafaggio giaceva sul dorso in mezzo al pavimento piastrellato. Shadow prese un asciugamano e pulì la vasca, poi aprì l’acqua. In camera si liberò dei vestiti e li appoggiò sul letto. I lividi sul torso erano diventati scuri e tumescenti. Entrò nella vasca e rimase seduto a guardare l’acqua diventare scura. Poi, tutto nudo, lavò i calzini, le mutande e la maglietta nel lavandino, li strizzò e li appese al filo sospeso proprio sopra la vasca. Lasciò lo scarafaggio dov’era in segno di rispetto per i defunti.

Si infilò sotto le coperte. Gli venne l’idea di guardare un film per adulti, ma per usare la pay-per-view c’era bisogno della carta di credito, troppo rischioso. Inoltre non era convinto che fosse salutare guardare qualcuno fare del sesso che lui non poteva fare. Accese la televisione per avere un po’ di compagnia, schiacciò il pulsante per lo spegnimento automatico tre volte, in modo che l’apparecchio si spegnesse dopo quarantacinque minuti. Mancava un quarto d’ora a mezzanotte.

Come spesso succede negli alberghi, l’immagine sullo schermo era indistinta e i colori nuotavano confusi. Shadow passò da uno spettacolo notturno all’altro in quella terra desolata che era il panorama televisivo, senza riuscire a concentrarsi su niente. Qualcuno stava dimostrando un oggetto che faceva chissà cosa in cucina e sostituiva una decina di utensili dei quali Shadow non aveva mai posseduto nemmeno un esemplare. Zap. Un uomo con un vestito elegante spiegava che era arrivata la fine dei tempi e che Gesù — una parola che lui pronunciava come se avesse tre "e" e due "u" — avrebbe fatto prosperare l’attività di Shadow se questi gli avesse mandato un po’ di soldi. Zap. Un episodio di M*A*S*H terminò e incominciò una puntata del Dick Van Dyke Show.

Shadow non ne vedeva una un sacco di tempo, ma trovava qualcosa di confortante in quel mondo anni Sessanta dipinto in bianco e nero e, appoggiato il telecomando accanto al letto, spense la luce. Rimase a guardare lo show, con gli occhi che si chiudevano dal sonno, avvertendo qualcosa di strano. Non aveva visto molti episodi del Dick Van Dyke, perciò non si sorprese di aver trovato una puntata che non ricordava. Trovava strano il tono, comunque.

I personaggi, i normali, erano preoccupati perché Rob beveva. Non si presentava più in ufficio. Andavano a casa sua: si era barricato in camera da letto e convincerlo a uscire non era facile. Era ubriaco marcio ma ancora piuttosto divertente. I suoi amici, interpretati da Maury Amsterdam e Rose Marie, se ne andavano dopo qualche scenetta comica. Poi, quando la moglie di Rob andava a rimproverarlo per l’accaduto, lui la picchiava, un forte manrovescio sulla faccia. Lei si metteva seduta per terra a piangere, non con quei famosi lamenti alla Mary Tyler, ma singhiozzando disperata, proteggendosi con le braccia e implorando: «Non picchiarmi, ti prego, faccio tutto quello che vuoi, ma non picchiarmi».

«Che cosa cazzo succede?» esclamò Shadow a voce alta.

L’immagine sullo schermo si dissolse in una foschia di puntini fosforescenti. Quando tornò, il Dick Van Dyke Show si era misteriosamente trasformato in I Love Lucy. Lucy stava cercando di convincere Ricky a lasciarle sostituire la vecchia ghiacciaia con un frigorifero nuovo. Quando Ricky uscì di scena, Lucy andò a sedersi sul divano, incrociò le caviglie, appoggiò le mani in grembo e fissando con espressione paziente dal bianco e nero del passato disse: «Shadow? Dobbiamo parlare, noi due».

Shadow rimase zitto. Lei aprì la borsetta e prese una sigaretta, la accese con un lussuoso accendino d’argento che rimise via. «Sto parlando con te. Allora?»

«Ma questa è roba da pazzi» disse lui.

«Perché, il resto della tua vita è normale? Ma fammi il piacere.»

«Be’… Lucille Ball che mi parla dal televisore è di parecchi ordini di grandezza più strano di qualsiasi cosa mi sia successa fino a oggi.»

«Non sono Lucille Ball. Mi chiamo Lucy Ricardo. E sai una cosa… non sono nemmeno Lucy. È più semplice pensare che lo sia, data la situazione. Tutto qui.» Si mosse sul divano, a disagio.

«Chi sei?»

«D’accordo» rispose lei. «È una buona domanda. Sono la scatola scema. Sono la Tv. Sono l’occhio che tutto vede e il mondo del tubo catodico. Sono la grande sorella. Sono il tempietto intorno a cui si riunisce la famiglia per pregare.»

«Sei la televisione? O qualcuno alla televisione?»

«La Tv è l’altare. Io sono ciò a cui il pubblico offre i suoi sacrifici.»

«E che cosa sacrificano?» chiese Shadow.

«Il loro tempo, soprattutto» disse Lucy. «A volte le persone che hanno vicino.» Alzò due dita e soffiò dai polpastrelli il fumo immaginario uscito da una pistola. Poi strizzò l’occhio, un bella strizzata d’occhio proprio nello stile di I Love Lucy.

«Sei una dea?» le chiese Shadow.

Lucy sorrise con aria furba e fece un tiro dalla sigaretta in modo molto femminile. «Puoi ben dirlo.»

«Sam ti manda i suoi saluti» disse Shadow.

«Cosa? Chi è Sam? Che cosa stai dicendo?»

Shadow guardò l’ora. Erano le dodici e venticinque. «Non fa niente» disse. «Allora, Lucy-alla-Tv. Di che cosa dobbiamo parlare? Ultimamente c’è troppa gente che vuole parlare con me. In genere finisce che le prendo.»

La macchina da presa si avvicinò per un primo piano: Lucy aveva un’aria preoccupata, le labbra corrucciate. «Mi dispiace tanto. Mi dispiace quando ti fanno del male, Shadow. Io non te ne farei mai, caro. No, quello che ti voglio proporre è un lavoro.»

«Cosa dovrei fare?»

«Lavorare per me. Ho sentito che hai passato dei guai con gli Spioni e sono rimasta colpita da come hai risolto la situazione. Con efficienza, razionalità ed efficacia. Chi l’avrebbe detto che saresti stato capace di una cosa simile? Sono veramente incazzati.»

«Ah sì?»

«Ti avevano sottovalutato, dolcezza. Un errore che io non intendo ripetere. Voglio averti dalla mia parte.» Si alzò e si avvicinò alla macchina. «Guardiamola in questo modo, Shadow: noi siamo il futuro. Noi siamo i centri commerciali, e i tuoi amici sono sgangherate attrazioni per turisti. Siamo gli acquisti in rete, accipicchia, mentre i tuoi amici se ne stanno ancora seduti sul ciglio della strada a vendere i prodotti dell’orto su un carretto. No, non sono nemmeno fruttivendoli. Vendono fruste per vecchi calessi. Riparano le stecche di balena dei corsetti. Noi siamo il presente e il futuro. I tuoi amici non rappresentano più nemmeno il passato.»

Era un discorso che a Shadow sembrava di aver già sentito. «Conosci un ragazzino grasso con una limousine?»

Lei allargò le braccia e fece roteare comicamente gli occhi, Lucy Ricardo che si lavava in modo buffo le mani dopo un disastro. «Il ragazzo tecnologico? Hai incontrato il ragazzo tecnologico? Guarda, dammi retta, è un bravo ragazzo. È uno di noi. Solo che non è gentile con quelli che non conosce. Una volta che comincerai a lavorare per noi vedrai com’è divertente.»

«E se non volessi lavorare per voi, I-Love-Lucy?»

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