— Come hai fatto a scoprirlo?
— Origliando. Non ho parlato con lui, e non credo che si sia accorto di me. Ne sono sicura, Sartak.
Sartak emise un profondo sospiro di disgusto. Un membro della razza nemica coinvolto anche lui in quella faccenda! Non erano già abbastanza complicate, le cose?
— Sai dove alloggia? — domandò.
— In un motel non lontano dal nostro. Si chiama… l’ho scritto qui sopra…
— Qual è?
Leenor trovò il pezzetto di carta e glielo disse. Sartak ne prese nota, poi riprese: — È una seccatura, ma vedremo di fare del nostro meglio. Leenor, vai al suo motel e fatti agganciare. Fai finta di essere un po’ stupida… come al solito. Non credo che cercherà di portarti a letto, ma se lo fa, collabora. E cerca di scoprire tutto ciò che sa. Può darsi che sia già in possesso di informazioni che ci farebbero comodo.
— E se scopre la mia vera natura?
— Non succederà. I Kranazoi non hanno il nostro senso dell’odorato. Non ha alcun modo di sapere che cosa c’è sotto la tua pelle, e molto probabilmente non ha sufficiente esperienza in fatto di terrestri da accorgersi che tu non sei ciò che sembri. Mantieniti calma, fai molte risatine da sciocca, ed ascolta con attenzione tutto ciò che dice.
— Ma se se ne accorge, Sartak?
— Hai con te una granata antiuomo, no? Noi stiamo agendo in base agli accordi, e lui no. Se tenta qualche mossa ostile, uccidilo.
— Ucciderlo?
— Uccidilo — ripeté Sartak con voluta brutalità. — Lo so, lo so, qui siamo tutti esseri civili. Ma siamo dei soccorritori, e lui è un intruso. Piazzagli la granata nella pancia e fallo fuori, Leenor. Se è necessario, cioè. Chiaro?
La ragazza sembrava un po’ disorientata.
— Chiaro — disse.
CAPITOLO SEDICESIMO
Charley Estancia teneva sempre il laser Dirnano legato sul ventre con una cinghia, anche quando dormiva. Non osava staccarsene mai. Per fortuna era abbastanza piccolo da non sporgere sotto i vestiti, soprattutto se lui lasciava penzolare i lembi della camicia. Il freddo del metallo contro la pelle gli dava un senso di sicurezza.
Sapeva che non avrebbe dovuto rubarlo in quel modo a Mirtin. Ma non era riuscito a resistere. Quel piccolo strumento lo aveva affascinato a tal punto che lui se lo era messo in tasca mentre Mirtin guardava dall’altra parte. Sperava che l’uomo delle stelle gli avrebbe perdonato quel furto, ma non ne era troppo sicuro.
La cosa peggiore era che Charley non riusciva a trovare il modo per lasciare il villaggio. Le danze della Società del Fuoco erano in pieno svolgimento, ed era rischioso allontanarsi. Dovevano essere presenti tutti. Stavano mettendo in scena le iniziazioni; sceglievano i nuovi candidati e li conducevano nel kiva per rivelare loro a mezza bocca le parole semidimenticate, poi li riconducevano fuori per eseguire la danza del fuoco e la danza dell’ingoiamento di bastoni. Charley non si aspettava di essere scelto come membro della Società del Fuoco; tutti nel villaggio sapevano che era una testa calda, ed era meglio che le teste calde rimanessero al di fuori delle società segrete. Ma c’era sempre l’assurda possibilità che quell’anno lui venisse scelto per l’iniziazione, e se fosse stato così, e non lo avessero trovato, allora Charley sarebbe stato davvero nei guai.
Perciò dovette rassegnarsi, lasciando che Mirtin se la cavasse da solo. Non temeva che Mirtin potesse morire di sete o di fame; ciò che realmente lo preoccupava era l’idea che l’extraterrestre arrivasse a pensare che Charley gli aveva rubato il laser e lo aveva abbandonato, dopo tutte le loro conversazioni amichevoli. Charley non aveva avuto occasione di parlargli della Società del Fuoco e della sua danza. Aveva sbagliato i calcoli, pensando che dovesse incominciare un giorno più tardi. Aveva deciso di metterne a conoscenza Mirtin subito prima dell’inizio delle celebrazioni, ma ormai non poteva più farlo. Si aggirava per il villaggio come un disperato, in cerca di un modo per allontanarsene. Il villaggio era pieno di turisti. Dappertutto macchine fotografiche, corpulente donne bianche che facevano i complimenti ai bambini, mariti dall’aria annoiata. I turisti erano dovunque, perfino nelle case. Si sarebbero infilati nel kiva, se il governatore non avesse piazzato un paio di muscolosi giovanotti a guardia dell’ingresso.
Nei suoi pochi momenti di intimità, Charley esaminò lo strumento che aveva rubato.
Esitava ad aprirlo; non ora, almeno. Ciò che gli aveva detto Mirtin sulle cose che un terrestre non avrebbe dovuto conoscere non preoccupava Charley; lui aveva paura che si potesse rompere mentre lo apriva. Prima di tutto voleva studiarlo nei particolari dall’esterno, per capire come funzionava.
Se ne servì per tagliare a metà un grosso ciocco di legno. Lo puntò addosso ad una roccia ed osservò la pietra ridursi ad una pozza liquefatta. Scavò un solco profondo trenta centimetri e largo tre metri. Commise qualche errore, mancando il bersaglio o coprendo una zona troppo vasta, ma dopo un’ora aveva imparato a maneggiarlo con assoluta padronanza. Proprio un bel giocattolo, pensò. Un piccolo miracolo. Quegli uomini delle stelle erano davvero eccezionali! Gli sarebbe piaciuto potersi recare a dare un’occhiata al pianeta di Mirtin. Ed andare a scuola lì.
Due giorni trascorsero in quel modo.
Vennero i danzatori della Società del Fuoco e scelsero Tomas Aguirre, quel grosso sciocco. Lo iniziarono, e poi presero Mark Gachupin. Di solito sceglievano solo tre nuovi membri ogni anno. Charley si domandò che cosa avrebbe fatto se fossero venuti a prendere lui. Sarebbe andato con loro, per poi scoppiare a ridere nel bel mezzo dei sacri riti? O si sarebbe semplicemente voltato e sarebbe corso via? Lo avrebbero chiamato con il suo nome indiano, Tsiwaiwonyi, un nome che non usava mai. Alcuni dei vecchi tentavano di chiamare la gente con il nome indiano, ma Charley era attaccato al suo nome di battesimo. Se gli dicevano «Tsiwaiwonyi, vieni con noi al kiva», lui rimaneva lì a bocca aperta.
Ma naturalmente non vennero da lui; non lo volevano. Il mattino del terzo giorno scelsero José Galvan, e Charley seppe che per un altro anno poteva stare tranquillo. Adesso poteva tornare nel deserto e scusarsi con Mirtin, e raccontargli della cerimonia, e magari anche restituirgli il laser, poiché Charley si sentiva molto in colpa per averlo preso. Incartò un bel po’ di tortillas, riempì una borraccia d’acqua, e lasciò tranquillamente il villaggio mentre nessuno era in vista.
Era a metà del tragitto che conduceva alla caverna di Mirtin, quando si accorse che qualcuno lo seguiva.
Dapprima udì uno scricchiolio di ramoscelli secchi alle sue spalle. Poteva trattarsi di qualsiasi cosa, da un coniglio selvatico diretto alla sua tana ad una lince in cerca di preda. Charley si fermò e si voltò, ma non vide nulla di strano. Tuttavia non era convinto. Dopo qualche altro passo gli sembrò di udire un colpo di tosse soffocato. I conigli non tossivano. Charley si girò all’improvviso e scorse la figura alta e magra di Marty Moquino che si trovava ad una decina di metri dietro di lui.
— Ciao — disse Marty, gettando via il mozzicone di sigaretta ed accendendone un’altra. — Dove te ne vai, Charley?
— A spasso.
— Tutto solo nel cuore dell’inverno?
— Quello che faccio non ti riguarda — replicò Charley, cercando di nascondere il panico. Perché Marty lo aveva seguito dal villaggio? Sapeva della caverna e del suo occupante? Se lo avesse scoperto, sarebbe stata la fine di Mirtin. Senza alcun dubbio Marty lo avrebbe venduto al governo. Oppure ai giornali.
— Perché non mi porti dove stai andando? — gli chiese Marty Moquino.
— Sto solo facendo una passeggiata.
— Già. Pare che tu la faccia tutte le sere. Ti ho tenuto d’occhio, ragazzo. Cosa c’è là fuori, dunque?