Luz sistemò un ciocco perché bruciasse più lentamente e l’arginò con la cenere. S’infilò nella coperta, accanto a Southwind. Avrebbe voluto parlare, ora. Southwind parlava raramente di Timmo, Luz voleva sentirla parlare di lui, e di Lev: per la prima volta voleva parlare di Lev. C’era troppo silenzio. Le cose si smarrivano, nel silenzio. Era necessario parlare. E Southwind avrebbe compreso. Anche lei aveva perso la sua fortuna, aveva conosciuto la morte, e aveva continuato a vivere.
Luz la chiamò per nome, a bassa voce, ma il caldo fagotto accanto a lei non si mosse. Southwind dormiva.
Luz si sdraiò cautamente, mettendosi comoda. La riva del ruscello, sebbene sassosa, era un letto migliore di quello della notte precedente, tra gli arbusti spinosi. Ma il suo corpo era così stanco che lo sentiva pesante e irrigidito; e provava un’oppressione al petto. Chiuse gli occhi. Subito vide la sala di casa Falco, lunga e serena, con le finestre piene dell’argentea luce riflessa dalla baia; suo padre, diritto e vigile e composto come sempre. Ma stava lì senza far nulla, e questo non gli era abituale. Michael e Teresa erano sulla soglia e parlottavano. Luz provò un bizzarro risentimento verso di loro. Suo padre voltava le spalle ai due, come non sapesse che c’erano o come se lo sapesse ma ne avesse paura. Alzava le braccia, in modo strano. Luz lo vide in faccia, per un momento. Piangeva. Lei non riusciva a respirare, cercò di fare un respiro profondo, ma non ci riuscì: perché anche lei piangeva… singhiozzi profondi, sconvolgenti, che le permettevano a malapena di tirare un respiro fra l’uno e l’altro. Squassata dai singhiozzi, scossa e tormentata, distesa al suolo nell’immensa notte, pianse per i morti, per i perduti. Non era paura, adesso, ma dolore: dolore insopportabile e implacabile.
La stanchezza e l’oscurità bevvero le sue lacrime, e lei si addormentò prima di aver smesso di piangere. Dormì tutta la notte, senza sognare e senza destarsi, come una pietra fra le pietre.
Le colline erano alte e difficili. La salita non era terribile, perché potevano zigzagare sui grandi pendii scoperti color ruggine; ma quando giunsero alla sommità, fra i macigni ammucchiati come case e torri, si accorsero che avevano scalato soltanto la prima di tre o quattro catene, e che quelle più lontane erano ancora più alte.
Nelle gole tra i dossi si affollavano gli alberanelli, che lì non crescevano in cerchi ma si assiepavano fitti slanciandosi ad altezze innaturali verso la luce. Gli arbusti pesanti chiamati aloe brulicavano fra i rossi tronchi e rendevano molto difficile il cammino; ma sugli aloe c’erano ancora frutti, dalla polpa ricca e scura raggrinzita intorno al seme, una gradita aggiunta agli scarsi viveri contenuti negli zaini. In quel tratto non potevano fare a meno di lasciare una pista: per avanzare erano costretti ad aprirsi il passaggio con le roncole. Impiegarono un giorno per attraversare la gola e un altro per salire la seconda fila di colline, oltre la quale stava un’altra catena di gole popolate di alberi bronzei e di arbusti cremisi, e ancora più oltre un massiccio formidabile, dagli speroni scoscesi che ascendevano spogli fino alla vetta coronata di roccia.
La notte seguente dovettero accamparsi nella gola. Perfino Martin, che aveva aperto un varco con la roncola passo dopo passo, a metà del pomeriggio era troppo stanco per proseguire. Quando si accamparono, quelli che non erano esausti per la fatica di aprire una pista si spinsero in giro, guardinghi e senza allontanarsi troppo perché nel sottobosco era facile perdere l’orientamento. Trovarono e colsero i frutti degli aloe, e parecchi ragazzi, guidati da Welcome, trovarono vongole d’acqua dolce nel ruscello in fondo alla gola, quando andarono a prendere l’acqua. Quella sera fecero un buon pasto. Ne avevano bisogno, perché aveva ripreso a piovere. La nebbia, la pioggia e la sera ingrigivano i vividi e pesanti rossi della foresta. Eressero ripari di fascine e si rannicchiarono intorno ai fuochi, che non volevano saperne di restare accesi.
— Ho visto una cosa bizzarra, Luz.
Era un uomo strano Sasha: il più vecchio di tutti, anche se era solido e resistente e sopportava i disagi meglio di alcuni giovani; non perdeva mai la calma, era autosufficiente, quasi sempre taciturno. Luz non l’aveva mai visto partecipare a una conversazione se non con un sì o un no, un sorriso o una scrollata di capo. Lei sapeva che non aveva mai parlato alla Casa delle Riunioni, non aveva mai fatto parte del gruppo di Elia o di quello di Vera, non aveva mai ispirato le scelte della sua gente, sebbene fosse figlio di uno dei grandi eroi, quello Shults che aveva guidato la Lunga Marcia dalle vie di Moskva al porto di Lisbona e ancora oltre. Shults aveva avuto altri figli, ma erano morti durante i primi duri anni su Victoria; soltanto Sasha, l’ultimogenito, nato nel nuovo mondo, era sopravvissuto. E aveva generato un figlio maschio, e l’aveva visto morire. Non parlava mai: solo con lei, qualche volta. — Ho visto una cosa bizzarra, Luz.
— Che cosa?
— Un animale. — Sasha indicò sulla destra, sul ripido pendio di cespugli e alberi che adesso era una muraglia scura, nella luce evanescente. — C’è una piccola radura, lassù, dove sono caduti alcuni grossi alberi. Ho trovato qualche frutto d’aloe, e lo stavo cogliendo. Ho girato la testa: ho sentito qualcosa che mi guardava. Era dall’altra parte della radura. — Indugiò un momento, non per creare un effetto ma per poter descrivere con ordine.
— Anche quello raccoglieva frutti. In un primo momento ho creduto che fosse un uomo. Come un uomo. Ma non era molto più grosso di un coniglio quando si è lasciato ricadere sulle quattro zampe. Scuro, con la testa rossiccia, grande: sembrava troppo grande in proporzione. Un occhio centrale come quello dei cosè mi fissava. Aveva anche gli occhi laterali, credo, ma non ho visto bene. Mi ha fissato per un attimo e poi si è voltato ed è sparito tra gli alberi.
La voce di Sasha era bassa, calma.
— Mi sembra spaventoso — disse sommessamente Luz. — Non so perché. — Ma invece lo sapeva, ripensando al sogno degli esseri che venivano a spiare, anche se non li aveva più sognati da quando avevano abbandonato il labirinto degli arbusti spinosi.
Sasha scosse il capo. Erano accosciati, fianco a fianco, sotto un rozzo tetto di rami. Lui si passò la mano sui capelli, facendone cadere le^gocce di pioggia, e si lisciò gl’ispidi baffi grigi. — Qui non c’è nulla che possa farci del male. Eccettuati noi stessi. Nella città ci sono storie di animali che noi non conosciamo?
— No… soltanto gli scuri.
— Gli scuri?
— Vecchie storie. Esseri simili agli uomini, pelosi, con gli occhi torvi. Me ne parlava mia cugina Lores. Mio padre diceva che erano uomini: esuli, oppure pazzi che se n’erano andati e si erano inselvatichiti.
Sasha annuì. — Nessuno di loro sarebbe potuto arrivare tanto lontano — disse. — Noi siamo i primi.
— Noi siamo vissuti soltanto sulla costa. Immagino che ci siano animali che non abbiamo mai visto.
— E anche piante. Guarda quella. Somiglia alla biancabacca, ma non è la stessa. Non l’avevo mai vista, prima di ieri.
Dopo un po’, Sasha disse: — Non c’è un nome, per l’animale che ho vistò.
Luz annuì.
Tra lei e Sasha scese il silenzio, il legame del silenzio. Lui non parlò dell’animale agli altri, e non ne parlò neppure lei. Non sapevano nulla di quel mondo, il loro mondo: sapevano solo che dovevano camminare in silenzio finché avessero imparato il linguaggio adatto. Sasha era disposto ad attendere.
Scalarono la seconda catena, in un terzo giorno di pioggia. Trovarono una valle più lunga e meno profonda, dove il procedere era più agevole. Verso mezzogiorno il vento cambiò, soffiando dal nord e liberando la catena dalle nubi e dalla nebbia. Per tutto il pomeriggio salirono l’ultimo pendio: e quella sera, in un immenso e freddo chiarore, giunsero tra le massicce formazioni di rocce color ruggine della vetta, e videro le terre orientali.