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"È ciò che sta facendo con Herman Macmilan", pensò Luz. "Si serve di lui".

Perché no, perché no? E a cos’altro serviva Herman Macmilan?

E lei, a cosa serviva? A essere usata, e suo padre l’aveva usata tutta la sua vita: per la propria vanità, per la propria comodità, come un animaletto da compagnia; e in quei giorni l’usava per assicurarsi la docilità di Herman Macmilan. La sera prima le aveva ordinato di trattare Herman con cortesia, ogni volta che il giovane voleva parlare con lei. Senza dubbio Herman si era lagnato perché lei lo sfuggiva. Quel grosso prepotente piagnucoloso! Prepotenti tutti e due, tutti quanti, con i loro muscoli e le loro vanterie e i loro ordini e i loro subdoli piani.

Luz non ascoltava più quello che stavano dicendo i due uomini. Si allontanò dal muro, diritta, indifferente. Girò intorno alla casa, entrò dall’ingresso posteriore, attraversò le cucine sporche e tranquille nell’ora della siesta, e andò nella stanza che era stata assegnata a Vera Adelson.

Anche Vera stava facendo la siesta, ed era insonnolita.

— Ho ascoltato di nascosto mio padre e Herman Macmilan — disse Luz, fermandosi al centro della stanza mentre Vera, seduta sul letto, la guardava sbattendo le palpebre. — Progettano un’incursione contro il paese. Prenderanno prigionieri Lev e tutti gli altri capi, e poi cercheranno di esasperare i tuoi, di aizzarli a combattere, così potranno sconfiggerli e mandarne molti a lavorare per punizione nelle nuove fattorie. Ne hanno già mandati parecchi: ma sono scappati tutti, o sono scappate le guardie, non ho capito bene. E adesso Macmilan andrà con il suo «piccolo esercito» e mio padre gli ha detto di costringere la gente a reagire affinché tradisca le proprie idee, così potrà usarla come vuole.

Vera continuò a fissarla in silenzio.

— Tu sai cosa significa. Se non lo sai, lo sa Herman. Significa che lasceranno che i suoi uomini usino violenza alle donne. — La voce di Luz era fredda benché parlasse rapidamente. — Devi andare ad avvertirli.

Vera non disse nulla. Si guardò i piedi nudi, con aria distaccata. Era stordita, o forse rifletteva con la stessa rapidità con cui aveva parlato Luz.

— Rifiuti ancora di andare? La tua promessa ti vincola ancora? Anche dopo… questo?

— Sì — rispose Vera, con un filo di voce, come se fosse distratta. E poi, più energicamente: — Sì.

— Allora dovrò andare io.

— Dove?

— Ad avvertirli.

— Quando sarà l’attacco?

— Domani notte, credo. Di notte, ma non so bene a quale notte si riferivano.

Ci fu un silenzio.

— Forse è per stanotte. Hanno commentato: «Meglio, se sono a letto». — Era stato suo padre a dirlo, e Herman Macmilan aveva riso.

— E se vai tu… cosa farai?

Vera sembrava parlare con voce ancora assonnata, facendo lunghe pause.

— Li avvertirò, poi tornerò indietro.

— Qui?

— Non lo saprà nessuno. Lascerò detto che vado da Eva. Non ha importanza. Se riferirò a quelli del paese ciò che io ho sentito, cosa faranno?

— Non lo so.

— Ma non sarebbe utile che lo sapessero, che potessero prepararsi? Mi hai detto che bisogna sempre pianificare quello che si deve fare, preparare tutti…

— Sì, sarebbe utile. Ma…

— Allora andrò. Subito.

— Luz ascolta. Pensa a quello che fai. Puoi andare in pieno giorno, senza che nessuno si accorga che esci dalla città? Puoi ritornare? Pensa…

— Non m’importa se non potrò tornare. Questa casa è piena di menzogne — disse Luz, con lo stesso tono freddo e concitato. E uscì.

Andare fu facile. Continuare ad andare fu difficile.

Prendere un vecchio scialle nero, mentre usciva, e avvolgerselo addosso per proteggersi dalla pioggia e camuffarsi; sgattaiolare via dall’uscita posteriore, lungo la viuzza laterale, trottando come una serva ansiosa di rientrare a casa; lasciare casa Falco, lasciare la città: questo fu facile. Era emozionante. Lei non aveva paura che qualcuno la fermasse: non aveva paura di nessuno. Se la fermavano, sarebbe bastato che dicesse «sono la figlia del consigliere Falco!» e nessuno avrebbe fiatato. Ma nessuno la fermò. Era sicura che nessuno l’aveva riconosciuta, perché procedeva per i vicoletti seguendo il percorso più breve per uscire dalla città, oltre la scuola; il nero scialle le copriva la testa; e il vento carico di pioggia, che spirava dal mare e quasi la sospingeva, avrebbe soffiato negli occhi di chi fosse venuto verso di lei. Pochi minuti dopo si lasciò alle spalle le strade e tagliò attraverso il deposito di legname dei Macmilan, fra le casette di tronchi e di assi, e poi su, verso le alture, e lungo la strada per Shantih.

Da questo momento divenne tutto difficile, da quando lei mise piede su quella strada. L’aveva percorsa una sola volta in tutta la vita, quando era andata con un gruppo di amiche — debitamente scortate da zie, duenne e guardie di casa Marquez — a vedere il ballo alla Casa delle Riunioni. Era estate, e loro avevano chiacchierato e riso per tutta la strada. La carrozzella a pedali della zia di Eva, Caterina, aveva perso una ruota e l’aveva scaricata nella polvere, e per tutto il pomeriggio la zia Caterina aveva assistito alle danze con un grande cerchio di polvere bianca sul dietro dell’abito nero, e loro non avevano mai smesso di ridacchiare… Ma non avevano neppure attraversato il paese. Com’era, lassù? Di chi doveva chiedere, a Shantih, e cosa doveva dire? Avrebbe dovuto discuterne prima con Vera, invece di correr via con tanta furia. Cosa le avrebbero detto? L’avrebbero lasciata entrare, sapendo che veniva dalla città? L’avrebbero fissata, avrebbero riso di lei, avrebbero cercato di farle del male? Dicevano che non facevano del male a nessuno. Probabilmente non avrebbero voluto parlarle. Il vento alle sue spalle, adesso, era freddo. La pioggia aveva infradiciato lo scialle e l’abito, sulla schiena, e l’orlo della gonna era appesantito dal fango e dall’acqua. I campi erano vuoti, ingrigiti dall’autunno. Quando si voltò indietro non vide altro che la Torre Monumentale, un relitto pallido che puntava insensatamente verso il cielo: tutto ciò che lei conosceva adesso era celato aldilà di quel punto di riferimento. Sulla sinistra, a volte, intravedeva il fiume, ampio e grigio, battuto dalle oblique raffiche di pioggia.

Avrebbe riferito il suo messaggio alla prima persona che avesse incontrato, avrebbe lasciato che facessero ciò che volevano; poi sarebbe tornata subito a casa. Sarebbe rientrata al massimo dopo un’ora, molto prima di cena.

Vide una piccola fattoria sulla sinistra, lontano dalla strada, fra gli alberi da frutto, e una donna sull’aia. Rallentò il passo. Avrebbe raggiunto la fattoria, avrebbe riferito il messaggio alla donna, e poi quella sarebbe andata ad avvertire gli altri di Shantih e lei sarebbe tornata subito indietro. Esitò, si avviò verso la fattoria… poi si voltò, raggiunse di nuovo la strada, camminando tra l’erba fradicia di pioggia. — Proseguirò e farò quello che devo fare e poi tornerò a casa — mormorò a se stessa. — Proseguirò, farò quello che devo fare, tornerò a casa. — Camminava più in fretta, quasi di corsa. Le guance le bruciavano: era sfiatata. Da mesi, anni, non camminava tanto. Non doveva presentarsi rossa e sfiatata a quegli sconosciuti. Si costrinse a rallentare, a camminare eretta, a passo regolare. Aveva la bocca e la gola inaridite. Avrebbe voluto fermarsi a bere l’acqua piovana dalle foglie dei cespugli, arrotolando la lingua per catturare le gocce fresche che le imperlavano. Ma sarebbe stato un gesto da bambina. La strada era più lunga di quanto aveva immaginato. E quella era davvero la strada per Shantih? O aveva sbagliato e si era avviata lungo una pista dei taglialegna, una pista che conduceva nei territori selvaggi?

A questo pensiero, un freddo brivido di terrore la pervase facendola arrestare di colpo.

Si voltò per guardare la città, la cara, stretta, piccola, affollata, bellissima città fatta di muri e tetti e vie e facce e voci, la sua casa, la sua vita… ma non c’era nulla, perfino la Torre era scomparsa aldilà del lungo dosso della strada. I campi e le colline erano deserti. L’immenso vento leggero spirava dal mare vuoto.

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