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La fantascienza della LeGuin, perdendo ogni connotato di estrapolazione futuristica, riafferma ne Il Giorno del perdono, una precisa funzione fabulatoria femminista – per riprendere una definizione di Marleen Barr – assieme alla volontà dell'autrice di essere anche lei "storica" e plasmatrice di nuove coscienze. E infatti, le ultime parole di Radosse Rakam, che ha trovato assieme alla libertà il linguaggio della sua autobiografia, ribadiscono il significato "politico" del libro, ma sono anche un fervido messaggio d'amore. Rileggiamole assieme.

Oriana Palusci

TRADIMENTI

«Sul pianeta O non scoppia una guerra da cinquemila anni,» lesse, «e Gethen non ha mai conosciuto guerre.» Interruppe la lettura, per far riposare gli occhi e anche perché stava cercando di abituarsi a leggere lentamente, a non divorare le frasi a bocconi interi come Tikuli ingurgitava il cibo. «Non ha mai conosciuto guerre»: nella sua mente quelle parole si stagliavano chiare e distinte, circondate da un alone di incredulità infinita, oscura e soffice in cui poi affondavano. Ma che mondo può essere, quello senza guerre? Sarebbe un mondo vero. La pace era la vita vera, una vita di lavoro e sapere ed educazione dei figli al lavoro e al sapere. La guerra, che divorava lavoro, sapere e figli, era la negazione della realtà. Ma la mia gente, pensò, sa soltanto negare. Nati nelle tenebre fitte di un potere mal utilizzato, releghiamo la pace fuori dal nostro mondo, come un faro irraggiungibile. Sappiamo soltanto combattere. Quel po' di pace che qualcuno di noi riesce a trovare in vita sua è soltanto la negazione della guerra in corso, un fantasma di un fantasma, un'incredulità al quadrato.

Così, mentre le ombre delle nuvole scivolavano sugli acquitrini e sulla pagina del libro che teneva aperto in grembo, si lasciò sfuggire un sospiro e chiuse gli occhi, immersa nelle sue riflessioni. «Sono una bugiarda.» Poi riaprì gli occhi e lesse ancora su quegli altri mondi, su quelle realtà lontane.

Tikuli, che dormiva acciambellato attorno alla coda nella scialba luce del sole, sospirò quasi la stesse imitando, e si grattò una pulce nel sogno. Gubu era a caccia nel canneto. Non riusciva a vederlo, ma ogni tanto il pennacchio di una canna tremolava, e a un certo punto un gallinaccio di palude spiccò il volo, chiocciando indignato.

Immersa nella descrizione dei bizzarri costumi sociali degli Ithsh, non vide Wada finché questi non entrò dal cancelletto. «Oh, sei già qua,» gli disse, còlta di sorpresa, sentendosi impreparata, incompetente, vecchia come sempre si sentiva in presenza di altre persone. Quand'era sola, si sentiva vecchia soltanto quando era sfinita o ammalata. Forse vivere da sola era la cosa migliore da fare, dopo tutto. «Entra pure,» disse, alzandosi. Lasciò cadere il libro, e quando lo raccolse sentì la crocchia di capelli che si scioglieva. «Allora, prendo la borsa e vado.»

«Non c'è fretta,» disse il giovane con la sua voce dolce. «Eyid deve ancora arrivare.»

Molto gentile da parte tua ricordarmi che non mi devo affrettare a lasciare casa mia, pensò Yoss, ma non disse nulla, obbedendo all'egoismo intollerabile e delizioso del ragazzo. Entrò a prendere la sua borsa per la spesa, si sistemò i capelli, si legò una sciarpa in testa, poi tornò sotto il piccolo porticato. Wada s'era accomodato sulla sua seggiola, ma balzò in piedi appena lei uscì. Era un ragazzo timido, il più gentile tra i due amanti. «Divertiti,» gli disse con un sorriso, capendo che lo stava mettendo in imbarazzo. «Io torno tra un paio d'ore… prima del tramonto.» Andò al cancelletto, uscì e si avviò per la strada da cui era venuto Wada, lungo il sentiero che portava alla passerella di legno che serpeggiava attraverso le paludi fino al villaggio.

Non avrebbe incontrato Eyid per strada. La ragazza sarebbe arrivata da nord, per un sentiero di palude, dopo aver lasciato il villaggio a un'ora diversa e prendendo una direzione differente da quella di Wada, in modo che nessuno facesse caso al fatto che per qualche ora alla settimana i due giovani sparivano simultaneamente. Erano innamorati alla follia, si amavano da tre anni, e sarebbero già stati conviventi da tempo se il padre di Wada e il fratello del padre di Eyid non fossero stati in lite su un pezzo riassegnato di terra della Corporazione, innescando una faida tra le famiglie che finora non era sfociata in uno spargimento di sangue ma rendeva impensabile un rapporto di parentela. La terra era preziosa, e le famiglie, per quanto povere, aspiravano entrambe alla guida del villaggio. Si trattava di un dissidio insanabile, a cui prendeva parte l'intero villaggio. Eyid e Wada non avevano altro posto dove andare, non avevano i mezzi per sopravvivere in una città, non godevano di rapporti tribali per farsi accogliere in altri villaggi. La loro passione era intrappolata negli odi dei vecchi. Yoss li aveva sorpresi, ormai un anno prima, l'uno nelle braccia dell'altra sul terreno gelido di un isolotto nella palude, ci era quasi inciampata sopra, come una volta era inciampata in una coppia di cerbiatti di palude che si tenevano stretti nel loro nido d'erba, dove li aveva lasciati la mamma. Questa coppia le era parsa altrettanto spaventata, erano tutti e due belli e vulnerabili come quei cerbiatti, e l'avevano implorata "di non dire nulla" con tanta umiltà che non aveva potuto fare altrimenti. Stavano tremando per il freddo, le gambe nude di Eyid erano tutte infangate, e si tenevano abbracciati come bambini. «Venite a casa mia,» gli intimò con voce severa. «Per carità!» Poi se ne andò. La seguirono timidi timidi. «Torno tra un'oretta,» gli disse appena li ebbe fatti entrare nell'unica stanza, con la rientranza per il letto proprio accanto al camino. «Non sporcate di fango niente!»

Quella volta s'era aggirata per i viottoli a far la guardia, nel caso qualcuno li stesse cercando. Adesso, mentre i "cerbiatti" passavano la loro ora di piacere a casa sua, andava quasi sempre al villaggio.

Erano troppo ignoranti per pensare a un modo di ringraziarla. Wada tagliava la torba, perciò le avrebbe potuto rifornire il camino senza che sospettassero di nulla, eppure non le avevano mai lasciato nemmeno un fiorellino, anche se ogni volta rifacevano il letto alla perfezione. Forse non le erano nemmeno molto grati. E perché mai? Gli dava soltanto quel che gli era dovuto: un letto, un'ora di piacere, un momento di pace. Non era colpa loro, o merito suo, se non c'era nessun altro che glieli offriva.

La sua capatina di quel giorno la portò al negozio dello zio di Eyid. Era il pasticcere del villaggio. Tutta la sacra astinenza che s'era ripromessa quand'era arrivata due anni prima, quell'unica ciotola di grano scondito, quel sorso d'acqua pura, era stata dimenticata in un batter d'occhio. La dieta a base di cereali le aveva fatto venire la diarrea, e l'acqua di palude era imbevibile. Mangiava tutta la verdura fresca che poteva comprare o coltivare, beveva vino o acqua minerale o succhi di frutta provenienti dalla città, e conservava un'ampia scorta di dolci, frutta essiccata, uva passa, croccanti, persino le tortine che facevano la madre e le zie di Eyid, dei discoidi obesi spalmati di pasta di noci, roba secca, untuosa, insapore eppure stranamente appetibile. Ne comprò una sporta piena, oltre a una ruota di croccante, scambiando qualche pettegolezzo con le zie, delle donnette scure con gli occhi sfuggenti che la sera prima erano state alla veglia del vecchio Uad e adesso ne volevano discutere. «Quella gente,» cioè la famiglia di Wada, indicata con un'occhiataccia, una scrollata di spalle e uno sbuffo, «s'è comportata male come al solito, si sono ubriacati, hanno scatenato delle risse, non hanno fatto che vantarsi, e hanno dato di stomaco dappertutto, da tangheri avidi e straccioni quali sono.» Quando si fermò all'edicola per prendere un giornale (altro voto da tempo spezzato, dopo che aveva cominciato col leggere solo l'Arkamye per impararlo a memoria), ci trovò la madre di Wada, dalla quale apprese come «quella gente», cioè la famiglia di Eyid, non aveva fatto altro che vantarsi e ubriacarsi e vomitare dappertutto alla veglia della sera prima. Non si limitò ad ascoltare, ma domandò particolari e sollecitò pettegolezzi. L'adorava.

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