«Non lo farà mai,» disse lei. «Non glielo lasceranno fare.»
«Per favore, non discuta,» disse l'uomo con tono secco e convulso. «Questo è il materiale per scrivere, questo è il messaggio,» e posò i fogli e la penna sul materasso, con un gesto nervoso, come se avesse paura di avvicinarsi a lei.
Solly era consapevole che Teyeo si teneva in disparte, seduto immobile con la testa china, gli occhi bassi. Gli uomini lo ignoravano.
«Se vi scrivo questo, voglio acqua, molta acqua, e sapone e coperte e carta igienica e cuscini e un dottore. E voglio che qualcuno venga subito appena busso a quella porta, e voglio dei vestiti decenti, vestiti caldi, vestiti da uomo.»
«Niente dottore,» disse l'uomo. «Scriva, per favore. Ora!» Era nervoso, irrequieto. Lei non osò insistere. Lesse il messaggio, lo copiò nella sua larga grafia infantile, perché scriveva a mano raramente, e lo consegnò al portavoce. Questi gli diede un'occhiata e senza una parola fece uscire gli altri uomini, poi chiusero la porta.
«Dovevo rifiutarmi?»
«Non penso,» disse Teyeo. Sì alzò, si stirò, poi si sedette di nuovo, in preda alle vertigini. «Sa trattare bene.»
«Vedremo quello che otterremo. Dio mio, cosa sta succedendo?»
«Forse il Gatay non ha intenzione di sottostare a queste richieste, ma quando il Voe Deo e il suo Ekumene lo scopriranno, faranno più pressione sul Gatay.»
«Vorrei che si sbrigassero, immagino che il Gatay sia terribilmente imbarazzato e cerchi di salvarsi la faccia coprendo l'intera faccenda. È possibile? Quanto possono tenerla nascosta? E la tua gente? Non ti cercheranno?»
«Certamente,» rispose Teyeo alla sua maniera gentile.
Era strano come il suo modo di fare così rigido, le sue maniere che l'avevano sempre tenuta lontana da lui, tagliata fuori, quaggiù avessero tutto un altro effetto. Il suo riserbo e il formalismo la rassicuravano sul fatto di fare ancora parte del mondo al di fuori di quella cella, il mondo da cui provenivano e a cui sarebbero tornati, un mondo dove la gente viveva una lunga vita.
Quanto importava una vita lunga? Non lo sapeva. Non ci aveva mai pensato prima. Ma questi giovani patrioti vivevano in un mondo di vite brevi. Bisogni e violenza, emergenza e morte. Per che cosa? Per fanatismo, odio, sete di potere.
«Quando se ne vanno,» disse lei sottovoce, «mi viene davvero paura.»
Teyeo si schiarì la gola e disse, «Anche a me».
Esercizi.
«Afferra… no, tieniti saldo! Non sono fatta di vetro! Adesso!»
«Ah!» fece lui con un sorriso eccitato, mentre Solly gli mostrava la mossa, e a sua volta lui la ripeté, staccandosi da lei.
«D'accordo. Ora tu aspetti qui.» Tunff. «Visto?»
«Ahi.»
«Scusa, mi dispiace, Teyeo, non pensavo alla tua testa, stai bene? Mi dispiace davvero.»
«Oh, Kamye,» si lamentò lui, sedendosi e tenendosi fra le mani la testa bruna e sottile. Respirò a fondo varie volte. Lei si inginocchiò, pentita e ansiosa.
«Non è…» disse lui e respirò ancora. «Non è leale.»
«No, è chiaro che non lo è. È aiji. Tutto è lecito in amore e in guerra, dicono su Terra. Davvero, mi dispiace, mi dispiace terribilmente. È stato così stupido da parte mia.»
Lui si mise a ridere, una risata disperata. Scosse la testa, la scosse di nuovo e disse, «Mostramelo, non capisco come hai fatto».
Esercizi.
«Cosa fai con la tua mente?»
«Niente.»
«La lasci solo vagare?»
«No. Siamo forse esseri diversi, io e la mia mente?»
«Allora non ti focalizzi su qualcosa? Vaghi soltanto?»
«No.»
«Allora non la lasci vagare.»
«Chi?» disse lui, alquanto stizzito.
Una pausa.
«Pensi a…»
«No,» disse lui. «Stai ferma.»
Una lunga pausa, forse un quarto d'ora.
«Teyeo, non ce la faccio, mi brucia, la mia mente brucia. Da quanto tempo lo fai?»
Una pausa e una risposta riluttante. «Fin da quando avevo due anni.»
Lui sciolse la sua posa immobile e del tutto rilassata, piegò la testa per stirare il collo e i muscoli delle spalle. Lei lo stette a guardare.
«Continuo a pensare alla vita, a vivere a lungo,» disse Solly. «Non voglio dire solo essere vivi per molto tempo, accidenti. Io sono viva da circa mille e cento anni. Cosa vuol dire? Nulla. Cioè, c'è qualcosa che fa la differenza nel pensare a una vita lunga, come avere dei figli, anche solo il pensare di avere dei figli. È come se cambiasse un equilibrio. Mi fa ridere il fatto di continuare a pensare a queste cose proprio adesso che le mie possibilità di avere una vita lunga si fanno più scarse.»
Lui non disse niente. Era capace di non dire niente in un modo che le permetteva di continuare a parlare. Era uno degli uomini meno loquaci che avesse mai conosciuto. La maggior parte degli uomini parlava sempre. Anche lei era una gran chiacchierona. Teyeo era un tipo taciturno. Solly avrebbe voluto imparare la virtù del silenzio.
«È solo questione di pratica, vero?» gli chiese. «Solo starsene seduto là.»
Lui annuì.
«Anni e anni e anni di pratica. Dio mio, forse…»
«No, no,» disse lui, leggendole nel pensiero.
«Ma perché non fanno qualcosa? Cosa stanno aspettando? Sono già nove giorni.»
Sin dall'inizio, per un accordo non pianificato e non stipulato a parole, la stanza era stata divisa in due. La linea correva nel mezzo del materasso e fino al muro di fronte. La porta stava dalla parte di Solly, a sinistra, il cesso dalla parte di Teyeo, a destra. Ogni invasione dello spazio dell'altro veniva richiesta con un cenno quasi impercettibile e il permesso veniva dato allo stesso modo. Quando uno dei due usava il cesso, l'altro gli voltava le spalle con discrezione. Quando avevano abbastanza acqua per lavarsi, cosa piuttosto rara, vigeva lo stesso principio. La linea di demarcazione nel mezzo del materasso era assoluta. Le loro voci la oltrepassavano, e così i suoni e gli odori dei loro corpi. A volte lei sentiva il calore del compagno. La temperatura corporea del wereliano era più alta, e nell'aria umida stagnante sentiva quel calore che si irradiava mentre lui dormiva. Ma non varcavano mai la linea, neanche con un dito, neanche nel sonno più profondo.
Solly ci pensava, e trovava la cosa abbastanza divertente, a volte. In altri momenti le sembrava stupido e perverso. Non potevano ottenere entrambi un po' di calore umano? L'unica volta che lo aveva toccato era stato il primo giorno, quando lo aveva aiutato a salire sul materasso, e poi, appena avevano ottenuto abbastanza acqua, quando gli aveva pulito la ferita alla testa e pian piano aveva sciacquato il sangue raggrumato e puzzolente dai capelli servendosi del pettine, che dopotutto si era rivelato un oggetto utile, e di alcuni pezzi della gonna da dea, inesauribile fonte di bende e asciugamani. Poi, una volta che la testa era guarita, avevano fatto esercizi aiji tutti i giorni. L'aiji presentava una purezza rituale impersonale in quel suo sistema di prese e abbracci che era molto distante dal conforto di un essere umano. Per tutto il resto del tempo la presenza fisica di Teyeo era chiaramente, invariabilmente intoccabile.
Lui stava solo mantenendo, in circostanze incredibilmente difficili, la sua solita rigidità, la sua riservatezza. Non solo lui, ma anche Rewe. Tutti quanti, tutti tranne Batikam. Eppure, il cedimento istantaneo di Batikam al suo capriccio era stato davvero il vero contatto che lei cercava? Pensava alla paura nei suoi occhi quell'ultima notte. Non era riservatezza, ma costrizione.
Era la mentalità di una società di schiavi, schiavi e padroni intrappolati nella stessa trappola di autoprotezione e sfiducia radicale.
«Teyeo,» disse, «non capisco la schiavitù. E lasciami spiegare quello che voglio dire,» aggiunse, nonostante lui non avesse palesato nessun segno di volerla interrompere o contraddire, ma solo una cortese attenzione. «Voglio dire, capisco come un'istituzione sociale si possa costituire e come un individuo ne diventi semplicemente una parte. Non ti sto chiedendo perché non sei d'accordo con me nel considerare questa istituzione malvagia e priva di profitto. Non ti sto chiedendo di difenderla o di rinunciarci, sto solo cercando di capire cosa si prova a credere che due terzi degli esseri umani del tuo mondo siano di fatto, legalmente, una vostra proprietà. Anzi, cinque sesti, se includiamo le donne della vostra casta.»