Glielo tolsero. Un uomo, chinandosi su di lei, la girò in modo da poterle slegare le braccia, e poi le gambe, mormorando nella lingua del Voe Deo, «Non aver paura, Signora. Non vogliamo farti del male». Quindi arretrò velocemente. Erano in quattro o cinque, era difficile vedere, c'era poca luce. «Aspettare qui,» disse un altro. «Tutto bene. Solo per farti contenta.» Cercò di mettersi seduta, ma quel gesto le fece venire le vertigini. Quando la testa smise di girare erano spariti tutti, come per magia. Solo per farla contenta.
Era una stanza piccola, molto alta, muri di mattoni scuri, aria polverosa. La luce veniva da una placca bio-luminescente attaccata al soffitto, un debole bagliore senza ombra, forse sufficiente per occhi wereliani. Solo per farmi contenta. Sono stata rapita, pensa un po'. Cercò di inventariare quello che aveva intorno: il grosso materasso su cui giaceva; una coperta; una porta; una piccola caraffa e una tazza; un buco di scarico, o qualcosa del genere, là nell'angolo. Quando gettò le gambe giù dal materasso, i piedi colpirono qualcosa sul pavimento. Si tirò su e scrutò la massa buia, il corpo lì disteso. Un uomo. L'uniforme scura, la pelle così nera che non riusciva a scorgerne i lineamenti. Ma lo riconobbe. Anche lì, il maggiore era con lei.
Si alzò vacillante, cercando di investigare sul buco di scarico, che era semplicemente quello che pensava: un buco bordato di cemento aperto nel pavimento, che puzzava di sostanze chimiche, leggermente ripugnante. La testa le doleva, e si risedette sul letto, per massaggiarsi le braccia e le caviglie, per rallentare la tensione e il dolore, toccandosi come per assicurarsi che fosse tutto vero, ritmica e metodica. Mi hanno rapita, pensa un po'. Solo per farmi contenta. E a lui che è successo?
Pensando di colpo che potesse essere morto, rabbrividì e rimase immobile.
Dopo un po' si abbassò lentamente sul maggiore cercando di vedergli il viso, di ascoltare. Di nuovo si sentì come sorda. Non udiva nessun respiro. Si allungò tremante, con la nausea, e appoggiò il palmo della mano sulla faccia dell'uomo. Era fredda, molto fredda. Ma il calore tornò a soffiarle tra le dita, di nuovo. Si accovacciò sul materasso a studiare il maggiore. Giaceva assolutamente immobile, ma quando gli mise la mano sul petto sentì il lento battito del cuore.
«Teyeo,» disse in un bisbiglio. La sua voce non sarebbe andata oltre il bisbiglio.
Gli mise di nuovo la mano sul petto. Voleva sentire quel battito regolare, lento, il debole calore così rassicurante. Solo per farla contenta.
Che altro avevano detto? Di aspettare. Sì, sembrava fosse quello il programma. Forse poteva dormire, e al risveglio sarebbe arrivato il riscatto, o qualunque altra cosa volevano.
Si svegliò con in testa il pensiero che aveva ancora l'orologio, e dopo aver studiato mezza addormentata il piccolo quadrante d'argento, decise che aveva dormito tre ore. Era ancora il giorno della festa, troppo presto per il riscatto, probabilmente. E non sarebbe potuta andare a teatro a vedere i makil, quella sera. I suoi occhi si erano abituati alla luce bassa, così riuscì a vedere che c'era del sangue secco sulla testa dell'uomo. Tastando, trovò un bozzo caldo come un pugno sopra la tempia. Le sue dita si macchiarono. Era stato colpito alla testa. Doveva essere stato lui a lanciarsi contro il prete, il falso prete. Tutto quello che riusciva a ricordare era un'ombra volante, un colpo duro, e un uff! che pareva un attacco con tecnica aiji. Poi c'era stato quel rumore assordante che aveva confuso tutto. Fece schioccare la lingua, batté contro il muro per controllare l'udito. Sembrava che fosse a posto. Il muro di cotone era sparito. Forse era stata colpita anche lei. Si toccò la testa, ma non trovò dei bernoccoli. Il maggiore doveva avere una commozione cerebrale, se era ancora privo di sensi dopo tre ore. Brutta? Quando sarebbero tornati quegli uomini?
Appena si alzò quasi cadde per terra, intrappolata in quella dannata gonna da dea. Se solo avesse avuto indosso i suoi vestiti, invece di quell'abito sfarzoso, tre capi impalpabili che per infilarseli ci voleva l'aiuto delle schiave. Si tolse la gonna e usò lo scialle per improvvisare un gonnellino aderente che le arrivava alle ginocchia. Non faceva affatto caldo in quello scantinato, o qualsiasi cosa fosse. Era umido e assai freddo. Camminò su e giù, quattro passi e si girava, quattro passi e si girava, per fare un po' di riscaldamento. Avevano buttato l'uomo sul pavimento. Quant'era freddo? Poteva essere una commozione cerebrale? Chi subisce un trauma dev'essere tenuto al caldo. Esitò a lungo, incapace di reagire alle proprie indecisioni, al fatto di non sapere cosa fare. Doveva cercare di sollevarlo sul materasso? Era forse meglio non muoverlo? E dove diavolo erano quegli uomini? Stava per morire?
Si chinò su di lui e disse decisa, «Rega! Teyeo!» e dopo un po' il maggiore cominciò a respirare.
«Svegliati!» In quel momento si ricordò, o almeno credette di ricordare, che era importante non lasciare che le persone con una commozione cerebrale cadessero in coma. A parte che lui c'era già caduto.
L'uomo trattenne di nuovo il respiro e il suo viso cambiò, uscendo da quella immobilità rigida, gli occhi si aprirono e si chiusero, annebbiati. «Oh, Kamye,» disse a bassa voce.
Lei non poteva credere a quanto era felice di rivederlo. Solo per farla contenta. Era chiaro che il maggiore aveva un mal di testa accecante, e lui ammise anche di vederci doppio. Lei lo aiutò a tirarsi su e lo coprì con la coperta. Lui non fece domande, giacque muto, scivolando subito nel sonno. Una volta che fu sistemato, lei ricominciò coi suoi esercizi, proseguendo per circa un'ora. Guardò l'orologio. Erano passate due ore dello stesso giorno, il giorno della festa del Perdono. Non era ancora sera. Quando sarebbero arrivati quegli uomini?
Arrivarono la mattina presto, dopo una notte infinita, che fu uguale al pomeriggio e al mattino. La porta di metallo venne aperta con fragore e uno di loro entrò con un vassoio, mentre altri due restarono vicino all'entrata con le armi alzate e puntate. Non c'era posto dove mettere il vassoio tranne che per terra, così il primo uomo lo spinse verso Solly, dicendo, «Mi dispiace, Signora!» e se ne andò. La porta si chiuse con fragore, i chiavistelli scattarono e lei rimase pietrificata, con il vassoio in mano. «Aspettate!» disse.
Il maggiore si era svegliato e si stava guardando intorno intontito. Trovandosi prigioniera in quel posto con lui, Solly aveva dimenticato il suo soprannome, non pensava più a lui come al maggiore, comunque evitò di chiamarlo col nome vero. «Ecco la colazione, immagino,» disse, e si sedette sul bordo del materasso. Sopra il vassoio di vimini era stato gettato un panno, sotto il quale trovò una pila di panini del Gatay ripieni di carne e verdure, un po' di frutta e una caraffa di lega leggera ornata di perline. «Colazione, pranzo e cena, forse,» disse lei. «Merda! Oh, be'. Non sembra male. Ce la fai a mangiare? Ce la fai a sederti?»
Lui si sforzò di sedersi con la schiena contro il muro, poi chiuse gli occhi.
«Ci vedi ancora doppio?»
Lui fece un piccolo cenno di assenso.
«Hai sete?»
Mormorio di assenso.
«Tieni,» disse, e gli passò la tazza. Reggendola con entrambe le mani, lui se la portò alla bocca e bevve l'acqua lentamente, un sorso alla volta. Nel frattempo lei divorò tre panini di fila, poi s'impose di fermarsi e mangiò la frutta. «Vuoi mangiare anche tu un po' di frutta?» gli chiese, sentendosi in colpa. Lui non rispose. Solly pensava a Batikam che l'aveva imboccata con le fette di frutta il giorno prima, a colazione. Sembrava cent'anni fa.
Il cibo nello stomaco le fece venire la nausea. Prese la tazza dalle mani rilassate dell'uomo, che si era addormentato di nuovo, e si versò dell'acqua. Bevve lentamente, un sorso alla volta.