Eppure lui si considerava un uomo lento, tardo, inefficace nei casi di emergenza.
Una volta mi aveva detto che, essendo così lento di pensiero, era costretto a guidare le sue azioni con un'intuizione generale di quale corso stava seguendo la sua «fortuna», e che questa intuizione ben raramente lo abbandonava o lo tradiva. Lo aveva detto seriamente; poteva essere perfino la verità. I Profeti delle fortezze non sono le sole persone, su Inverno, capaci di vedere avanti. I Profeti hanno addomesticato e addestrato il presagio, l'indizio e la premonizione, ma non hanno aumentato la sua certezza. In questa materia, gli Yomeshta possono avere ragione a loro volta: il dono non è, forse, solo un semplice, ristretto dono di profezia, ma è piuttosto il potere di vedere (anche se solo per un breve istante, in un lampo) tutto nello stesso tempo: vedere l'intero.
Tenni la piccola stufetta, che serviva per cucinare e per riscaldare, alla massima intensità, mentre Estraven era via, e così ebbi un calore piacevole, autentico, per la prima volta… da quanto tempo? Pensai che ormai doveva essere Thern, il primo mese dell'inverno e di un nuovo Anno Uno, ma a Pulefen avevo quasi perduto il conto.
La stufa era uno di quegli apparecchi economici ed eccellenti che i getheniani hanno perfezionato nel loro millenario sforzo per vincere il freddo. Soltanto l'uso di una carica a fissione, come fonte di alimentazione, avrebbe potuto migliorarla ancora. La sua batteria durava quattordici mesi, di uso continuo… e molto di più se l'uso era discontinuo. Il calore sprigionato era intenso. Era una stufa, un forno, un fornello, e una lanterna, tutto nello stesso tempo, e pesava poco, circa quattro libbre. Senza di essa, non avremmo potuto percorrere nemmeno cinquanta miglia. Doveva essere costata una buona parte del denaro di Estraven, quel denaro che gli avevo dato altezzosamente, quasi sdegnosamente, quando ero giunto a Mishnory. La tenda, che era fatta di materie plastiche, similpelle e altre, trattate in maniera particolare per resistere al freddo, e progettata in maniera da affrontare almeno in parte la condensazione dell'acqua che costituisce il maggiore disagio dell'interno di una tenda, nel clima freddo; i sacchi a pelo di pelliccia di pesthry, che potevano essere usati come unità autonome o come semplici materassi; gli indumenti, gli sci, la slitta, le provviste di cibo, tutto era di primissima qualità, di perfetta fattura, di peso leggero, durevole, costoso. Se lui era andato a procurarsi dell'altro cibo, con che cosa sarebbe riuscito a ottenerlo?
Non ritornò fino al tramonto del giorno successivo. Ero già uscito diverse volte, usando le scarpe da neve, radunando le forze e facendo pratica, percorrendo il pendio nevoso della piccola valle candida che nascondeva la nostra tenda. Le scarpe da neve erano un incrocio tra le racchette e i pattini. Ero uno sciatore discreto, ma non avevo molta pratica di pattinaggio, e non avevo usato spesso quel tipo di scarpe. Non ebbi il coraggio di addentrarmi troppo nel territorio ignoto, perché il timore di perdere le tracce e di smarrirmi mi teneva bloccato; era un territorio selvaggio, deserto, ripido, pieno di crepacci e di burroni e di corsi d'acqua ghiacciati, un territorio ondulato che si sollevava poi rapidissimo, inerpicandosi verso le grandi montagne a est, avvolte in un manto minaccioso di nubi. Ebbi il tempo di domandarmi che cosa avrei potuto fare, in quella landa dimenticata, se Estraven non fosse tornato indietro.
Lui ritornò, scendendo velocemente dal pendio fosco della collina immersa nel crepuscolo… era uno sciatore prodigioso… e si fermò accanto a me, sporco e stanco e carico. Aveva sulla schiena una grossa cesta, un sacco pieno di fagotti; Papà Natale, che scende dai camini della vecchia Terra. I fagotti contenevano pane secco, semi di grano, tè, e zollette, dello zucchero duro, rosso, dal sapore scialbo che i getheniani ricavano da una delle loro tuberacee.
— Come avete ottenuto tutto questo?
— L'ho rubato — mi disse colui che era stato un tempo Primo Ministro di Karhide, tendendo le mani verso la stufa, che non aveva ancora abbassato d'intensità; lui, perfino lui, aveva freddo. — A Turuf. C'è mancato un pelo. — Fu tutto quello che riuscii a sapere. Non era orgoglioso della sua impresa, e non era capace di riderne. Rubare è un delitto vilissimo, su Inverno; in effetti, il solo uomo che viene più disprezzato del ladro è il suicida.
— Prima di tutto useremo questo cibo — mi disse, e io mi misi sulla stufa un boccale pieno di neve, a sciogliersi. — È pesante. — Quasi tutto il cibo che aveva avuto con sé, prima, era composto di razioni di ipercibo, una mistura disidratata, compressa, trattata chimicamente e ridotta in cubi e tavolette solide, di cibi ad alto contenuto energetico… il cui nome Orgota era gichy-michy, un nome che noi stessi avevamo adottato, benché, naturalmente, insieme parlassimo in lingua karhidi. Ne avevamo a sufficienza per sessanta giorni, al minimo delle razioni consuete: una libbra al giorno a testa. Quando si fu lavato ed ebbe mangiato, Estraven restò seduto a lungo accanto alla stufa, quella notte, facendo un preciso inventario di quello che avevamo, e di come, e quando, avremmo dovuto servircene. Non avevamo bilance, e lui fu costretto a effettuare delle valutazioni approssimative, usando una scatola da una libbra di gichy-michy come campione. Lui conosceva, come quasi tutti i getheniani, il valore calorico e nutritivo di ogni cibo; conosceva le proprie esigenze in una gamma completa di condizioni fisiche e ambientali, e sapeva anche valutare le mia con un sufficiente grado di approssimazione. Una conoscenza simile, su Inverno, ha un altissimo valore di sopravvivenza.
Quando alla fine tutte le nostre razioni furono valutate e programmate, Estraven si infilò nel suo sacco a pelo, e si addormentò. Durante la notte, lo sentii mormorare dei numeri, in sogno: pesi, giorni, distanze…
Avevamo (con molta approssimazione, certo) circa ottocento miglia da percorrere. Le prime cento sarebbero state in direzione nord, o nord-est, attraverso la foresta e attraverso gli speroni più settentrionali della catena dei Sembensyens, fino al grande ghiacciaio, la distesa di ghiaccio che copre i due lobi del Grande Continente ovunque, a nord del 45° parallelo, e in alcuni punti affonda verso sud, fin quasi a raggiungere il 35°. Una di queste propaggini meridionali è la regione delle Colline di Fuoco, le ultime vette dei Sembensyens, e quella regione fu la nostra prima mèta. Lassù tra le montagne, era il ragionamento di Estraven, avremmo potuto arrivare sulla superficie della coltre di ghiaccio, o discendendo su di essa dal pendio di una montagna, o salendo fino a essa scalando il pendio di uno dei suoi ghiacciai efferenti. Di là avremmo viaggiato sul Ghiaccio vero e proprio, in direzione est, per circa seicento miglia. Dove il bordo del ghiacciaio si protende verso nord, di nuovo, nelle vicinanze della Baia di Guthen, saremmo discesi dal Ghiaccio e avremmo tagliato a sud-est, percorrendo le ultime cinquanta o cento miglia attraverso le Paludi di Shenshey, che in quell'epoca avrebbero dovuto essere coperte da tre, quattro o perfino sei metri di neve, fino a raggiungere la frontiera karhidi.
Questa strada ci avrebbe mantenuto fin dall'inizio alla larga da territori abitati, o soltanto abitabili, e così sarebbe stato fino al termine del viaggio. Non avremmo incontrato alcun Ispettore. Questo era senza dubbio di primaria importanza. Io non avevo documenti, ed Estraven diceva che i suoi non avrebbero resistito a un'altra falsificazione. In ogni caso, benché io avessi potuto venire scambiato per un getheniano, quando nessuno si aspettava qualcosa d'altro, non potevo essere celato a un occhio che cercava i miei lineamenti. Sotto questo aspetto, perciò, la strada che Estraven proponeva di seguire era altamente pratica.
Sotto tutti gli altri aspetti, però, pareva soltanto una completa pazzia.