Mi fermai all'Ufficio d'Ispezione, percorrendo il corridoio, ed essendo io la guardia nessuno mi impedì di entrare e di cercare, fino a quando non trovai il pannello murale contenente gli allarmi e gli interruttori. Nessuno portava un'etichetta, ma le guardie avevano inciso delle lettere, accanto agli interruttori, per aiutare la memoria quando la fretta era necessaria; presumendo che R.o volesse dire «recinto», abbassai quell'interruttore, per togliere la corrente dalle difese esterne della Fattoria, e poi proseguii, portando di peso Ai, ora tenendolo per le spalle. Raggiunsi la guardia di servizio nella stanza di sentinella, accanto alla porta. Recitai la parte di chi trascina con enorme fatica un peso morto, dovetti recitare, perché la forza del dothe era dentro di me, e non volevo che la guardia vedesse con quale facilità, in realtà, potessi tirare o trasportare il peso di un uomo più pesante di me. Dissi:
— Un prigioniero morto, mi hanno detto di portarlo fuori dal dormitorio. Dove lo metto?
— Non lo so. Portalo fuori. Sotto un tetto, in modo che la neve non possa seppellirlo e lui ci spunti fuori a primavera, nel disgelo, puzzolente come una pestilenza. Nevica peditia. - Intendeva quello che noi chiamiamo neve-sove, una precipitazione fittissima, bagnata, per me la migliore delle notizie.
— Va bene, va bene — dissi, e portai fuori il mio carico, fuori dal dormitorio e intorno all'angolo del casermone, dove lui non poteva più vederci. Issai di nuovo Ai in spalla, mi diressi a nord-est per qualche centinaio di metri, scavalcai il recinto nel quale la corrente non circolava più, e posai al suolo il mio carico, scesi a mia volta, libero, raccolsi di nuovo Ai, e mi allontanai il più in fretta possibile verso il fiume. Non ero lontano dal recinto, quando un fischio prolungato cominciò a sibilare, e i fari si accesero. La neve era abbastanza fitta da nascondermi, ma non era abbastanza compatta da nascondere le mie tracce entro pochi minuti. Eppure, quando arrivai al fiume, non erano ancora sulle mie tracce. Mi diressi a nord, sul terreno libero, sotto gli alberi, o attraverso l'acqua quando non trovai terreno sgombro; il fiume, un tumultuoso, rapidissimo tributario dell'Esagel, non era ancora ghiacciato. Le cose cominciavano ad assumere contorni più distinti, ora, nel chiarore dell'aurora, e potei camminare in fretta. In pieno dothe trovai l'Inviato, benché le sue misure costituissero un carico ingombrante, un peso facilissimo da portare. Seguendo il torrente nella foresta raggiunsi il crepaccio dov'era la mia slitta, e sulla slitta posai e legai con cinghie l'Inviato, accumulando il mio carico intorno e sopra di lui, in modo che egli fosse ben nascosto, e su tutto posai una larga pelle impermeabile; poi cambiai d'abito, e mangiai del cibo preso dal mio zaino, perché la grande fame che si prova nel dothe prolungato era già padrona del mio ventre. Infine mi diressi a nord, sulla principale Strada della Foresta. Prima che fosse passato molto tempo, un paio di sciatori mi raggiunsero.
Ero adesso vestito, e attrezzato, come un cacciatore di pelli, e dissi loro che stavo cercando di raggiungere il gruppo di Mavriva, che era andato a nord negli ultimi giorni di Grende. Gli sciatori conoscevano Mavriva, e accettarono la mia storia dopo aver dato un'occhiata alla mia licenza di caccia. Non si aspettavano di trovare i fuggiaschi diretti a nord, perché nulla si trova a nord di Pulefen, se non la foresta e il Ghiaccio; e forse non erano molto interessati a trovare i fuggiaschi, fin dall'inizio. Perché avrebbero dovuto esserlo? Proseguirono, e solo un'ora più tardi mi passarono di nuovo accanto, diretti nuovamente alla Fattoria. Uno di loro era l'uomo con il quale avevo sostenuto il turno di guardia notturno. Non aveva mai visto il mio viso, benché l'avesse avuto davanti agli occhi per metà della notte.
Quando fui sicuro che se ne fossero andati, abbandonai la strada e per tutto il giorno percorsi un lungo semicerchio, che ripassava attraverso la foresta e i contrafforti montuosi a est della Fattoria, avvicinandomi infine da oriente, dalla landa deserta e desolata, alla valle segreta sopra Turuf dove avevo nascosto tutto il mio equipaggiamento di riserva. Era difficile guidare la slitta su quella terra dalle molte pieghe, con più del mio peso da tirare, ma la neve era alta, e si stava già facendo più solida, e io ero in dothe. Dovevo mantenere quella condizione, perché non appena una persona lascia cadere la forza del dothe, questa persona non serve più a nulla. Non avevo mai mantenuto lo stato di dothe, prima di allora, per più di un'ora, ma sapevo che alcuni dei Vecchi potevano mantenersi in piena forza per un giorno e una notte, e perfino di più, e la mia necessità presente si dimostrava un eccellente supplemento al mio addestramento. In dothe non ci si preoccupa molto, e quel poco di apprensione che io avevo era tutto rivolto all'Inviato, che avrebbe dovuto svegliarsi già da molto tempo dalla leggera dose di pistola sonica che gli avevo dato. Non si era mai mosso, neppure un fremito, e non avevo tempo di accudire a lui. Il suo corpo era forse così alieno che quella che per noi era semplicemente una paralisi, per lui era la morte? Quando la ruota gira sotto la vostra mano, bisogna fare attenzione a quello che dite; e per due volte io l'avevo chiamato morto, e l'avevo portato come vengono portati i morti. Allora veniva il pensiero che forse era un morto quello che io avevo portato per le colline e la foresta e il fiume e la valle, e che la mia fortuna e la sua vita erano andate sprecate, dopotutto. A quel pensiero io sudavo e imprecavo, e la forza del dothe pareva uscire da me come acqua zampillante da un otre rotto. Ma andai avanti, e la forza non mi mancò fino a quando non ebbi raggiunto il nascondiglio nelle colline, e non ebbi eretto la tenda, e fatto quel che io potevo fare per Ai. Aprii una scatola di cubi di cibo concentrato, che divorai in gran parte, mentre una piccola parte la feci entrare in lui, come brodo, perché mi pareva vicino a morire di fame. C'erano delle ulcerazioni sulle sue braccia e sul suo petto, che non si rimarginavano a causa del sacco ruvido e sporco nel quale giaceva. Quando queste piaghe furono lavate ed egli giacque, al caldo, nel mio sacco a pelo, nascosto come solo l'inverno e la desolazione della terra potevano nasconderlo, non ci fu altro che io potessi fare. La notte era caduta e le tenebre più grandi, il prezzo per l'evocazione volontaria dell'intera forza del corpo, stavano calando fitte, pesanti su di me; e alle tenebre dovevano affidare me stesso, e lui.
Dormimmo. Cadde la neve. Per tutta la notte e il giorno e la notte del mio sonno di thangen dovette nevicare, non una tormenta, ma la prima grande nevicata dell'inverno. Quando infine mi mossi, e riuscii, in parte sveglio, a sollevarmi per guardare fuori, la tenda era per metà sepolta dalla neve. Luce del sole e ombre azzurrine si stendevano vivide sulla neve. Lontano e in alto a est, una sottile striscia di grigio sbiadiva la lucentezza tersa del cielo: il fumo di Udenushreke, la più vicina a noi delle Colline di Fuoco. Intorno alla piccola vetta della tenda si stendeva la neve, montagne, colline, pozzi, crepacci, pendii, tutto bianco, candido, neve bianca, immacolata.
Trovandomi ancora nel periodo di recupero, ero molto debole e assonnato, ma quando riuscivo a muovermi, a destarmi, davo ad Ai del brodo, un poco per volta; e nella sera di quel giorno egli si rianimò, pur non recuperando del tutto sensi ed intelletto. Si mise a sedere, rialzandosi di scatto e gridando, come preso da un grande terrore. Quando m'inginocchiai accanto a lui, cercò di allontanarsi da me, e lo sforzo fu troppo per lui, ed egli svenne. Quella notte egli parlò molto, ma non in una lingua che io conoscessi. Era strano, molto strano, in quella nera immobilità del territorio desolato e selvaggio, sentirlo mormorare parole di una lingua che aveva appreso su un mondo diverso da questo. Il giorno dopo fu duro, perché ogni volta che io cercavo di accudire a lui, lui mi scambiava, penso, per una delle guardie della Fattoria, e aveva il terrore che io gli dessi delle droghe. Esclamava in Orgota e in lingua karhidi, mescolandole in un pietoso balbettio, supplicandomi di «non farlo», e lottò contro di me animato dalla forza del panico. Questo accadde ancora, e ancora, e poiché io ero ancora in thangen ed ero debole di membra e di volontà, mi sembrò di non poter fare nulla per lui. Quel giorno pensai che non lo avessero soltanto drogato, ma anche avessero cambiato la sua mente, lasciandolo pazzo o idiota. Allora desiderai che fosse morto sulla slitta, nella foresta degli alberi di thore, o che io non avessi avuto alcuna fortuna, ma fossi stato arrestato nel lasciare Mishnory e mandato in qualche Fattoria, per scontare nel lavoro la mia condanna.