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L'ufficio della Centralità locale Agricola Commensale era disordinato e frenetico, in preda alla massima agitazione, ma trovarono il tempo di occuparsi di me, e di chiedermi scusa per le scomodità subite nella notte appena trascorsa.

— Se solo non aveste scelto di entrare nella Commensalità a Siuwensin! — si lamentò un grasso Ispettore. — Se almeno aveste preso la strada più consueta!

Non sapevano chi io fossi né perché dovesse essermi concesso un trattamento particolare; la loro ignoranza era evidente, ma non faceva alcuna differenza. Genly Ai, l'Inviato, doveva essere trattato come un ospite importante, di riguardo. Lo era. A metà pomeriggio ero già sulla strada per Mishnory, a bordo di un'auto messa a mia disposizione dalla Centralità Agricola Commensale dell'Est Homsvashom, Ottavo Distretto. Avevo un nuovo passaporto, e un salvacondotto per tutte le Case di Transito che avrei incontrato lungo la strada, e un invito telegrafico nella residenza di Mishnory del Commissario del Primo Distretto Commensale per le Strade d'Accesso e i Porti, il signor Uth Shusgis.

La radio della piccola automobile si accese con il motore, e funzionò mentre l'auto funzionava; così per tutto il pomeriggio, mentre io viaggiavo attraverso le grandi campagne uniformi e piatte dell'Est Orgoreyn, campi di grano senza recinti (perché non ci sono animali da pascolo) e pieni di corsi d'acqua, ascoltai la radio. Mi parlò del tempo, del raccolto, delle condizioni delle strade; mi avvertì di guidare con prudenza; mi diede notizie di diversi generi da tutti e trentatré i Distretti, la produzione di certe fabbriche, le notizie di carico e scarico provenienti da diversi porti marittimi e fluviali; salmodiò alcuni canti Yomesh, e poi ricominciò a parlarmi del tempo. Era tutto molto blando, diluito, tranquillo, dopo la sfrenata propaganda che avevo udito per radio a Erhenrang. Non veniva fatto alcun cenno dell'incursione a Siuwensin; il governo Orgota, evidentemente, intendeva prevenire, e non provocare, l'eccitazione popolare. Un breve bollettino ufficiale, ripetuto di quando in quando, diceva semplicemente che l'ordine era e sarebbe stato mantenuto lungo la Frontiera Orientale. Questo mi piacque; era rassicurante, e per nulla provocatorio, e possedeva la quieta forza che avevo sempre ammirato nei getheniani: l'Ordine sarà mantenuto… Ero lieto, adesso, di essere uscito da Karhide, una terra incoerente spinta in direzione della violenza da un re paranoico e incinto, e da un Reggente egomaniaco. Ero felice di guidare con calma, a una velocità di trentacinque chilometri all'ora, attraverso vasti campi di grano diritti, sotto un quieto cielo grigio e uniforme, verso una capitale il cui governo credeva nell'Ordine.

Lungo la strada c'erano frequenti cartelli e segnali indicatori (a differenza delle strade karhidiane, prive di contrassegni di sorta, lungo le quali era necessario chiedere la strada da seguire, o indovinarla) con le istruzioni di prepararsi a una fermata nella Stazione d'Ispezione, della tale Area o Regione Commensale; in queste dogane interne era necessario mostrare i propri documenti d'identificazione, e registrare il proprio passaggio. I miei documenti erano validi per tutti gli esami, e così dopo il minimo indugio mi veniva cortesemente fatto cenno di proseguire, e venivo cortesemente informato sulla distanza della prossima Casa di Transito, se per caso avessi voluto mangiare o dormire. A trentacinque chilometri orari è un viaggio considerevole, quello che dalla Barriera Settentrionale porta a Mishnory, e passai due notti lungo la strada. Il cibo, nelle case di Transito, era insipido ma abbondante, l'alloggio era decente, e l'unica cosa che mancava era l'intimità. Perfino questa era fornita, in una certa misura, dalla reticenza dei miei colleghi viaggiatori. Non feci amicizia con nessuno, non feci conoscenze, e neppure ebbi una conversazione vera e propria, durante le mie soste, benché tentassi diverse volte. Gli Orgota non parevano un popolo ostile, o poco amichevole; erano semplicemente privi di curiosità. Erano incolori, fermi, sottomessi. Mi piacevano. Avevo già vissuto due anni di colore, di instabilità, e di passione, in Karhide. Un cambiamento era il benvenuto.

Seguendo la riva est del grande Fiume Kunderer, raggiunsi il terzo mattino della mia permanenza in Orgoreyn la città di Mishnory, certo la più grande di quel mondo.

Nella luce di un sole malato, tra i rapidi, copiosi rovesci di pioggia dell'autunno, mi pareva una città dall'aspetto strano, fatta di pareti di pietra spoglia, con poche finestre strette poste troppo in alto, ampie strade che facevano parere piccole le folle e minuscole le figure umane, lampioni stradali posti in cima a piloni ridicolmente alti, tetti che si univano nella punta dai lati ripidi, come mani giunte per pregare, tettoie che sporgevano dalle pareti degli edifici a cinque, sei metri da terra, come grandi scaffali di biblioteche vuote… una città grottesca, dalle proporzioni assurde, bizzarre, nella luce del sole. Non era stata costruita per la luce del sole. Era stata costruita per l'inverno. D'inverno, con quelle strade colme di tre metri di neve compressa, dura, solida, con i tetti aguzzi circondati da una corona di ghiaccioli, con le slitte parcheggiate sotto le tettoie, con le strette fessure gialle delle finestre che brillavano nella tormenta e nel buio del gelo, ebbene, solo d'inverno si poteva vedere come fosse adeguata quella città, quale valore economico avesse, quale bellezza.

Mishnory era più pulita, più grande, più luminosa di Erhenrang, più aperta e imponente. Grandi edifici di pietra bianco-giallognola la dominavano, semplici blocchi massicci, costruiti tutti secondo lo stesso schema, edifici che ospitavano gli uffici e i servizi del Governo Commensale, e anche i templi più grandi del culto Yomesh, un culto considerato religione di stato dalla Commensalità. Non c'era tumulto, non c'erano confusione e disordine, non c'era il senso di trovarsi sempre sotto l'ombra di qualcosa di alto e cupo, come a Erhenrang; tutto era semplice, di concezione grandiosa, e ordinato. Mi pareva di essere uscito da un'età oscura, e provai il desiderio di conoscere meglio quel luogo, e mi pentii di avere trascorso due anni interi in Karhide. Questo, ora, pareva un paese già pronto a entrare nell'Era Ecumenica.

Girai in auto per la città, per qualche tempo, poi restituii l'auto all'Ufficio Regionale competente, e andai a piedi verso la residenza del Commissario del Primo Distretto Commensale per le Strade d'Accesso e i Porti. Non mi ero assicurato se l'invito fosse una richiesta, o un ordine cortese. Nusuth. Ero in Orgoreyn per parlare a nome dell'Ecumene, e potevo cominciare qui, come in qualsiasi altro posto.

I miei concetti sulla flemma e sul compassato autocontrollo Orgota furono quasi distrutti dal Commissario Shusgis, che avanzò verso di me sorridendo e gridando, mi afferrò entrambe le mani nel gesto che i karhidiani riservano per i momenti d'intensa emozione personale, mi sollevò e abbassò le braccia come se avesse cercato di avviare il mio motore, e a gran voce ruggì un saluto all'Ambasciatore dell'Ecumene dei Mondi Conosciuti sul pianeta Gethen.

Quella fu una sorpresa, poiché nessuno dei dieci, dodici o quattordici Ispettori che avevano studiato i miei documenti aveva mostrato alcun segno di riconoscere il mio nome, o i termini Inviato ed Ecumene… cose, queste, che erano state per lo meno vagamente familiari per tutti i karhidiani che avevo incontrato in quei due anni. Avevo concluso che Karhide non aveva mai permesso l'uso delle notizie che mi riguardavano alle stazioni Orgota, tentando di mantenermi un segreto nazionale.

— Non Ambasciatore, signor Shusgis. Solo un inviato.

— Futuro Ambasciatore, allora. Sì, per Meshe! — Shusgis, un uomo solido, raggiante, mi guardò a lungo, e rise di nuovo. — Non siete come mi ero aspettato, signor Ai! Neppure un poco. Alto come un lampione stradale, dicevano, sottile come una slitta veloce, nero come l'inchiostro e dagli occhi obliqui… mi aspettavo un orco dei ghiacci, un mostro! Niente del genere. Solo che siete un po' più scuro della maggior parte di noi.

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