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Le leggi vengono fatte contro gli impulsi che un popolo più teme in sé. Non uccidere era l'unica Legge, di cui Shing andavano fieri. Tutto il resto era consentito: il che significa che forse c'erano poche altre cose che volevano veramente fare… Temendo la loro profonda attrazione per la morte, predicavano il Rispetto per la Vita, e infine raggiravano se stessi con la loro menzogna.

Era da escludere, quindi, che potesse riuscire vittorioso contro di loro se non, forse, per l'unica qualità con cui il bugiardo non può competere: l'integrità. Forse non gli passava nemmeno per la testa che un uomo potesse a tal punto voler essere se stesso, vivere la sua vita, da opporre resistenza, sia pur disarmato e nelle loro mani.

Forse, forse.

Calmò infine i suoi pensieri con uno sforzo della volontà, prese il libro che il Principe del Kansas gli aveva regalato (e che smentendo la sua predizione non aveva ancora perso), lo lesse per un po' molto attentamente, poi si mise a dormire.

L'indomani mattina, probabilmente l'ultima di questa sua vita, Orry gli suggerì di fare un giro della città sull'aeromobile e Falk accettò, dicendo che desiderava vedere l'Oceano Occidentale. Con leziosa cortesia due degli Shing, Abundibot e Ken Kenyek, chiesero se potevano accompagnare il loro onorevole ospite per rispondere a ogni altra domanda volesse fare sul Dominio della Terra, o sull'operazione fissata per l'indomani. Falk aveva nutrito una vaga speranza di apprendere altri particolari sull'operazione che avevano deciso di fare alla sua mente. Sperava che gli sarebbero serviti per elaborare una resistenza più efficace. Ma non servì a nulla. Ken Kenyek gli propinò un interminabile sproloquio irto di neuroni, sinossi, salvataggio, blocco, liberare, droghe, ipnosi, paraipnosi, computer uniti cerebralmente… concetti tutti insignificanti, e tutti spaventosi. Falk rinunciò presto a cercar di capire.

L'aeromobile, pilotato da un programmato zitto come la morte, che sembrava poco più che un'estensione dei controlli, si lasciò presto alle spalle le montagne e puntò a ovest verso i desertj, ricoperti dagli effimeri fiori multicolori della primavera. Nel giro di pochi minuti erano vicino alla parete di granito della Soglia Occidentale. Le Sierre si alzavano sempre scoscese, contorte, brulle per i cataclismi di duemila anni prima, pinnacoli frastagliati erti sopra abissi innevati. Al di là delle creste, si stendeva l'oceano nella luce del sole; scure sotto le onde stavano le terre inabissate.

C'erano città là sotto, dimenticate, come ce n'erano nel suo cervello, cadute in oblio, luoghi, nomi persi. L'aeromobile disegnò un cerchio per tornare verso est, ed egli disse: — Domani il terremoto; e Falk viene sommerso…

— Peccato che finisca così, Signore Ramarren — disse Abundibot con evidente soddisfazione. O forse sembrò a Falk che parlasse con soddisfazione. Ogni volta che Abundibot esprimeva un'emozione a parole, l'espressione suonava così falsa da sembrare che implicasse l'emozione opposta; probabilmente quello che implicava effettivamente era l'assenza totale di qualsiasi sensazione o sentimento. Ken Kenyek, viso bianco, occhi slavati, lineamenti regolari, senza età, parlava senza mostrare né fingere emozioni, soprattutto quando, come adesso, sedeva immobile e inespressivo; né sereno né imperturbabile, ma completamente chiuso, autosufficiente, distaccato.

L'aeromobile sfrecciò sulla via del ritorno sopra il deserto che si stendeva per miglia tra Es Toch e l'oceano; non c'era traccia di insediamenti umani in tutta quella estensione. Atterrarono sul tetto dell'edificio dove si trovava la stanza di Falk. Dopo un paio d'ore passate alla presenza fredda e pesante degli Shing, chiese una pur illusoria solitudine. Gli consentirono di averla; il resto del pomeriggio e la sera li passò da solo nella stanza a pareti appannate. Aveva temuto che gli Shing lo drogassero o gli mandassero altre illusioni per distrarlo o indebolirlo, ma pareva che non sentissero il bisogno di prendere ulteriori precauzioni con lui. Lo lasciarono indisturbato a percorrere in tutta la sua lunghezza il pavimento traslucido, a stare seduto, a leggere il suo libro. Dopotutto, cosa poteva fare contro la loro volontà?

A più riprese, nelle lunghe ore solitarie, prese in mano il libro, il Vecchio Canone. Non osava segnarlo, neanche scorrerlo col dito; si limitò a leggerlo, bene come lo conosceva, totalmente assorto, una pagina dopo l'altra, abbandonandosi alle parole, ad una ad una, ripetendole tra sé camminando, o seduto, o steso, e ricominciando più di una volta, e una volta ancora, dall'inizio, dalle prime parole della prima pagina:

La via che può essere percorsa

non è l'eterna Via.

Il nome che può essere nominato

non è l'eterno Nome.

E nel cuore della notte, sotto il peso della stanchezza e della fame, dei pensieri che non voleva permettersi di pensare e del terrore della morte che non voleva permettersi di provare, la sua mente entrò infine nello stato che aveva cercato. Le pareti sparirono; egli era la parola, la parola detta nell'oscurità quando non c'era nessuno a sentire all'inizio, la prima pagina del tempo. Il suo essere gli era caduto di dosso ed era profondamente, eternamente se stesso: innominato, solo, unico.

Poco per volta la realtà si ricostruì, le cose ebbero nomi, le pareti sorsero. Lesse la prima pagina del libro un'ultima volta, poi si stese a dormire.

La parete orientale della sua stanza era smeraldina per la prima luce del sole quando un paio di uomini programmati venne a prenderlo per concludo giù, attraverso un salone appannato, a pianterreno, poi alla strada, quindi in slitta per le strade ancora buie e al di là dell'abisso fino a un'altra torre. Non erano i due programmati che lo avevano servito, ma un paio di guardie enormi e silenziose. Ricordando la meticolosa brutalità della bastonatura che aveva ricevuto non appena entrato a Es Toch, prima lezione di non fiducia in se stesso impartitagli dagli Shing, immaginò che temessero un estremo tentativo di fuga, e gli avevano mandato le due guardie per scoraggiarlo a compiere atti inconsulti.

Fu condotto per un labirinto di stanze che finivano in stanzette sotterranee illuminate a giorno, completamente chiuse e dominate dagli schermi e dai quadri di controllo di un enorme cervello elettronico. Fu in una di queste stanzette che gli si fece incontro Ken Kenyek, solo. Era curioso: aveva visto gli Shing solo uno o due alla volta, e molto pochi in tutto. Ma adesso non c'era tempo per lambiccarsi il cervello su questi problemi, benché ai margini della sua mente frullasse per un attimo un vago ricordo, una spiegazione. Ma poi parlò Ken Kenyek.

— Non hai cercato di ucciderti ieri sera — disse lo Shing con il suo atono bisbiglio.

Era davvero l'unica via di scampo che non gli era mai passata per la mente.

— Ho pensato che era meglio lasciarlo fare a voi — rispose.

Ken Kenyek non prestò attenzione alle sue parole, pur con l'aria di stare ad ascoltarlo. — È tutto a posto — disse. — Questi sono quegli stessi quadri di controllo, e per la precisione quegli stessi contatti, che vennero usati per bloccare la tua primaria struttura mentale-paramentale, sei anni fa. La rimozione del blocco dovrebbe avvenire senza difficoltà o trauma, dato il tuo consenso. Il consenso è indispensabile per la ricostruzione, non invece per la soppressione. Sei pronto? — Quasi simultaneamente alla sua viva voce, comunicò con Falk in una telepatia straordinariamente chiara: — Sei pronto?

Prestava attento ascolto quando Falk rispose con un gentile: — Sì.

Come se fosse soddisfatto della risposta o dell'enfasi, lo Shing annuì e disse con il suo monotono bisbiglio: — Comincerò quindi senza droghe. Le droghe annebbiano la chiarezza dei processi paraipnotici: è più facile se si lavora senza. Siediti lì…

Falk obbedì, senza dire una parola, cercando di mantenere zitta anche la mente.

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