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"Cosa succede? Perché nel cofano?"

"Non preoccuparti. Adesso andiamo a Terzigno, alla fabbrica."

Alla guida si mise una specie di Minotauro. Era uscito dall'auto di Pasquale e sembrava sapesse a memoria cosa fare. Fece marcia indietro, uscì dal cancello, e prima di immettersi sulla strada cacciò una pistola. Una semiautomatica. Scarrellò e se la mise tra le gambe. Io non fiatai, ma il Minotauro, guardando nello specchietto retrovisore, vedeva che lo fissavo preoccupato:

"Una volta ci stavano facendo la pelle."

"Ma chi?"

Cercavo di farmi spiegare tutto dall'inizio.

"Sono quelli che non vogliono che i cinesi imparino a lavorare sull'alta moda. Quelli che dalla Cina vogliono le stoffe, punto e basta."

Non capivo. Continuavo a non capire. Intervenne Xian col suo solito tono tranquillizzante.

"Pasquale ci aiuta a imparare. A imparare a lavorare sui capi di qualità che ancora non ci affidano. Impariamo da lui come fare i vestiti…"

Il Minotauro, dopo la sintesi di Xian, cercò di motivare la pistola:

"Allora… una volta uno è sbucato lì, proprio lì vedi, in mezzo alla piazza, e ha sparato contro la macchina. Hanno colpito il motore e il tergicristalli. Se volevano farci fuori ci facevano fuori. Ma era un avvertimento. Se lo rifanno questa volta però sono pronto."

Il Minotauro poi mi spiegò che quando si guida tenere la pistola tra le cosce è la tecnica migliore, poggiarla sul cruscotto rallenterebbe i gesti, i movimenti per prenderla. Per arrivare a Terzigno la strada era in salita, la frizione gettava un odore puzzolentissimo. Piuttosto che temere per qualche sventagliata di mitra temevo che il rinculo dell'auto potesse far sparare la pistola nello scroto dell'autista. Arrivammo tranquillamente. Appena ferma la macchina Xian andò ad aprire il cofano. Pasquale uscì. Sembrava un kleenex appallottolato che tentava di stiracchiarsi. Mi si avvicinò e disse:

"Ogni volta questa storia, manco fossi un latitante. Però meglio che non mi vedono in macchina. Altrimenti…"

E fece il gesto della lama sulla gola. Il capannone era grande. Non enorme. Xian me lo descriveva orgoglioso. Era di sua proprietà, ma all'interno c'erano nove microfabbriche affidate a nove imprenditori cinesi. Entrando infatti sembrava di vedere una scacchiera. Ogni singola fabbrica aveva i propri operai e i propri banchi da lavoro ben circoscritti nei quadrati. A ogni fabbrica Xian aveva concesso lo stesso spazio delle fabbriche di Las Vegas. Ogni appalto lo concedeva per asta. Il metodo era lo stesso. Aveva deciso di non far stare i bambini nella zona di lavorazione, e i turni li aveva organizzati come facevano le fabbriche italiane. In più, quando lavoravano per altre aziende, non chiedevano liquidità anticipata. Xian insomma stava diventando un vero e proprio imprenditore della moda italiana.

Le fabbriche cinesi in Cina stavano facendo concorrenza alle fabbriche cinesi in Italia. E così Prato, Roma, e le China-town di mezza Italia stavano crollando miseramente: avevano avuto un boom di crescita così veloce da rendere la caduta ancora più repentina. In un unico modo si sarebbero potute salvare le fabbriche cinesi: fare diventare gli operai esperti dell'alta moda, capaci di lavorare in Italia sull'eccellenza. Imparare dagli italiani, dai padroncini sparsi per Las Vegas, divenire non più produttori di paccottiglia ma referenti nel sud Italia delle griffe. Prendere il posto, le logiche, gli spazi, i linguaggi delle fabbriche in nero italiane e cercare di fare lo stesso lavoro. Solo a un po' di meno e a qualche ora in più.

Pasquale cacciò della stoffa da una valigetta. Era un vestito che avrebbe dovuto tagliare e lavorare nella sua fabbrica. Invece fece l'operazione su una scrivania davanti a una telecamera, che lo riprendeva rimandando l'immagine su un enorme telone appeso alle sue spalle. Una ragazza con un microfono traduceva in cinese ciò che diceva. Era la sua quinta lezione.

"Dovete avere massima cura delle cuciture. La cucitura dev'essere leggera, ma non inesistente."

Il triangolo cinese. San Giuseppe Vesuviano, Terzigno, Ottaviano. E il fulcro dell'imprenditoria tessile cinese. Tutto quello che accade nelle comunità cinesi d'Italia è accaduto prima a Terzigno. Le prime lavorazioni, le qualità di produzione, e anche i primi assassinii. Qui è stato ammazzato Wang Dingjm, un immigrato quarantenne arrivato in auto da Roma per partecipare a una festa tra connazionali. Lo invitarono e poi gli spararono in testa. Wang era una testa di serpente, ovvero una guida. Legato ai cartelli criminali pechinesi che organizzano l'entrata clandestina di cittadini cinesi. Spesso le diverse teste di serpente si scontrano con i committenti di merce-uomo. Promettono agli imprenditori un quantitativo di persone che poi in realtà non portano. Come si uccide uno spacciatore quando ha tenuto per sé una parte del guadagno, così si uccide una testa di serpente perché ha barato sulla sua merce, sugli esseri umani. Ma a crepare non sono solo mafiosi. Fuori della fabbrica c'era una foto appesa su una porta. La foto di una ragazza piccola. Un bel viso, zigomi rosa, occhi neri che sembravano truccati. Era proprio posta nel punto in cui, nell'iconografia tradizionale, ci si aspetta il volto giallo di Mao. Era Zhang Xiangbi, una ragazza incinta uccisa e gettata in un pozzo qualche anno fa. Lei lavorava qui. Un meccanico di queste zone l'aveva adocchiata; lei passava davanti alla sua officina, a lui era piaciuta e questo credeva fosse condizione sufficiente per averla. I cinesi lavorano come bestie, strisciano come bisce, sono più silenziosi dei sordomuti, non possono avere forme di resistenza e di volontà. L'assioma nella mente di tutti, o quasi tutti, è questo. Zhang invece aveva resistito, aveva tentato di scappare quando il meccanico l'aveva avvicinata, ma non poteva denunciarlo. Era cinese, ogni gesto di visibilità è negato. Quando c'ha riprovato, questa volta l'uomo non ha sopportato il rifiuto. L'ha massacrata di calci sino a farla svenire e poi le ha squarciato la gola gettando il suo cadavere in fondo a un pozzo artesiano, lasciandolo gonfiare di umido e acqua per giorni. Pasquale conosceva questa storia, ne era rimasto sconvolto; ogni volta che teneva la sua lezione aveva infatti l'accortezza di andare dal fratello di Zhang e chiedere come stava, se aveva bisogno di qualcosa e si sentiva perennemente rispondere: "Niente, grazie".

Io e Pasquale legammo molto. Quando parlava dei tessuti sembrava un profeta. Nei negozi era pignolissimo, non era possibile neanche passeggiare, si piantava davanti a ogni vetrina insultando il taglio di una giacca, vergognandosi al posto del sarto per il disegno di una gonna. Era capace di prevedere la durata della vita di un pantalone, di una giacca, di un vestito. H numero esatto di lavaggi che avrebbero sopportato quei tessuti prima di ammosciarsi addosso. Pasquale mi iniziò al complicato mondo dei tessuti. Avevo cominciato anche a frequentare casa sua. La sua famiglia, i suoi tre bambini, sua moglie, mi davano allegria. Erano sempre attivi ma mai frenetici. Anche quella sera i bambini più piccoli correvano per la casa scalzi. Ma senza fare chiasso. Pasquale aveva acceso la televisione, cambiando i vari canali era rimasto immobile davanti allo schermo, aveva strizzato gli occhi sull'immagine come un miope, anche se ci vedeva benissimo. Nessuno stava parlando ma il silenzio sembrò farsi più denso. Luisa, la moglie, intuì qualcosa, perché si avvicinò alla televisione e si mise le mani sulla bocca, come quando si assiste a una cosa grave e si tappa un urlo. In tv Angelina Jolie calpestava la passerella della notte degli Oscar indossando un completo di raso bianco, bellissimo. Uno di quelli su misura, di quelli che gli stilisti italiani, contendendosele, offrono alle star. Quel vestito l'aveva cucito Pasquale in una fabbrica in nero ad Arzano. Gli avevano detto solo: "Questo va in America". Pasquale aveva lavorato su centinaia di vestiti andati negli USA. Si ricordava bene quel tailleur bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte le misure. Il taglio del collo, i millimetri dei polsi. E il pantalone. Aveva passato le mani nei tubi delle gambe e ricordava ancora il corpo nudo che ogni sarto immagina. Un nudo senza erotismo, disegnato nelle sue fasce muscolari, nelle sue ceramiche d'ossa. Un nudo da vestire, una mediazione tra muscolo, ossa e portamento. Era andato a prendersi la stoffa al porto, lo ricordava ancora bene quel giorno. Gliene avevano commissionati tre, di vestiti, senza dirgli altro. Sapevano a chi erano destinati, ma nessuno l'aveva avvertito.

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