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Nascere in terra di camorra per quei miei coetanei scozzesi significava avere un vantaggio, portare su di sé un marchio impresso a fuoco che ti orientava a considerare l'esistenza un'arena dove l'imprenditoria, le armi, e persino la propria vita sono solo e esclusivamente un mezzo per raggiungere danaro e potere: ciò per cui vale la pena di esistere e respirare, ciò che permette di vivere al centro del proprio tempo, senza dover badare ad altro. Brandon Queen c'era riuscito anche non nascendo in Italia, anche non avendo mai visto la Campania, anche senza percorrere chilometri in auto costeggiando cantieri, discariche e masserie di bufale. Era riuscito a divenire un uomo di potere vero, un camorrista.

Eppure questa grande organizzazione commerciale e finanziaria internazionale non aveva concesso flessibilità al clan nel controllo del territorio primo. A Mondragone, Augusto La Torre aveva gestito il potere con grande severità. Per far diventare il cartello così potente era stato spietato. Le armi, a centinaia, se le faceva arrivare dalla Svizzera. Politicamente aveva alternato diverse fasi, grande presenza nella gestione degli appalti poi soltanto alleanze, contatti sporadici, lasciando che si affermassero i suoi affari e che fosse quindi la politica ad accodarsi alle sue imprese. Mondragone fu il primo comune italiano a essere sciolto per infiltrazione camorristica negli anni '90. Nel corso degli anni, politica e clan non si sono mai realmente slegate. Un latitante napoletano aveva trovato ospitalità nel 2005 a casa di un candidato presente nella lista civica del sindaco uscente. Nel consiglio comunale per lungo tempo è stata presente, nel gruppo di maggioranza, la figlia un vigile urbano accusato di riscuotere tangenti per conto dei La Torre.

Augusto era stato severo anche con i politici. Gli oppositori al business della famiglia dovevano in ogni caso avere tutti punizioni esemplari e spietate. La modalità per l'eliminazione fisica dei nemici di La Torre era sempre la stessa, al punto tale che nel gergo criminale il metodo militare di Augusto si definisce ormai "alla mondragonese". La tecnica consiste nell'occultare nei pozzi delle campagne i corpi macellati da decine e decine di colpi e successivamente poi lanciare una bomba a mano; in tal modo il corpo viene dilaniato e la terra rovina sui resti che si impantanano nell'acqua. Così Augusto La Torre aveva fatto con Antonio Nugnes, vicesindaco democristiano scomparso nel nulla nel 1990. Nugnes rappresentava un ostacolo alla volontà del clan di gestire direttamente gli appalti pubblici comunali e di intervenire in tutte le vicende politiche e amministrative. Non voleva alleati, Augusto La Torre, voleva essere lui stesso in prima persona a gestire tutti gli affari possibili. Era una fase in cui le scelte militari non venivano particolarmente ponderate. Prima si sparava e poi si ragionava. Augusto era giovanissimo quando divenne il boss di Mondra-gone. L'obiettivo di La Torre era quello di diventare azionista di una clinica privata in via di costruzione: l'Incal-dana di cui Nugnes possedeva un nutrito pacchetto azionario. Una delle cliniche più prestigiose tra il Lazio e la Campania, a un passo da Roma, che avrebbe attirato un bel po' di imprenditori del basso Lazio, risolvendo il problema della mancanza di strutture ospedaliere efficienti sul litorale domizio e nell'agro pontino. Augusto aveva imposto un nome al consiglio d'amministrazione della clinica, il nome di un suo delfino anch'esso imprenditore del clan, arricchitosi con la gestione di una discarica. Augusto voleva che fosse lui a rappresentare la famiglia. Nugnes si oppose, aveva compreso che la strategia dei La Torre non sarebbe stata soltanto quella di mettere un piede in un grosso affare, ma qualcosa di più. La Torre così mandò un suo emissario dal vicesindaco cercando di ammorbidirlo, per convincerlo ad accettare le sue condizioni di gestione economica degli affari. Per un politico democristiano non era cosa scandalosa entrare in contatto con un boss, trattare con il suo potere imprenditoriale e militare. I clan erano la prima forza economica del territorio, rifiutare un rapporto con loro sarebbe stato come se un vicesindaco torinese avesse rifiutato un incontro con l'amministratore delegato della FIAT. Augusto La Torre non aveva in mente di acquistare alcune quote della clinica a un prezzo vantaggioso, come avrebbe fatto un boss diplomatico, le quote della clinica le voleva gratuitamente. In cambio avrebbe garantito che tutte le sue imprese vincitrici degli appalti di servizio, pulizie, mense, trasporti, guardiane-rie, avrebbero lavorato con professionalità e con un prezzo d'appalto molto vantaggioso. Assicurava che persino le sue bufale avrebbero fatto il latte più buono se quella clinica fosse divenuta la sua. Nugnes fu prelevato dalla sua azienda agricola con la scusa di un incontro con il boss e fu portato in una masseria di Falciano del Massico. Ad attendere Nugnes — secondo le dichiarazioni del boss — c'era oltre lo stesso Augusto, Jimmy ossia Girolamo Rozzera, e Massimo Gitto, Angelo Gagliardi, Giuseppe Valente, Mario Sperlongano e Francesco La Torre. Tutti ad attendere che l'agguato fosse compiuto. Il vicesindaco, appena sceso dall'auto, andò incontro al boss. Mentre Augusto allargava le braccia per salutarlo, biascicò una frase a Jimmy, come il boss ha confessato ai magistrati:

"Vieni, è arrivato zio Antonio."

Un messaggio chiaro e finale. Jimmy si avvicinò alle spalle di Nugnes e sparò due colpi che gli si conficcarono nella tempia, i colpi di grazia li sparò il boss stesso. Il corpo lo gettarono in un pozzo profondo quaranta metri in aperta campagna e lanciarono dentro due bombe a mano. Per anni di Antonio Nugnes non si seppe nulla. Arrivavano telefonate di persone che lo vedevano in mezz'Italia, era invece in un pozzo coperto da quintali di terra. Tredici anni dopo, Augusto e i suoi fedelissimi indicarono ai carabinieri dove poter trovare i resti del vicesindaco che aveva osato opporsi alla crescita dell'azienda dei La Torre. Quando i carabinieri iniziarono a raccogliere i resti, si accorsero che non c'erano quelli di un solo uomo. Quattro tibie, due crani, tre mani. Per più di dieci anni il corpo di Nugnes era stato al fianco di quello di Vincenzo Boccolato, un camorrista legato a Cutolo, che poi con la sconfitta si era avvicinato ai La Torre.

Boccolato era stato condannato a morte perché in una lettera inviata dal carcere a un suo amico aveva pesantemente offeso Augusto. Il boss l'aveva trovata per caso, mentre gironzolava per il soggiorno di un suo affiliato, scartabellando tra fogli e foglietti aveva riconosciuto il suo nome, e incuriosito si era messo a leggere la caterva di insulti e critiche che Boccolato gli dedicava. Già prima di concludere la lettera l'aveva condannato a morte. A ucciderlo mandò Angelo Gagliardi, un ex cutoliano come lui, uno di quelli sulla cui auto sarebbe salito senza sospettare nulla. Gli amici sono i migliori killer, quelli che più di rutti riescono a fare un lavoro pulito, senza rincorrere il proprio obiettivo mentre urla scappando. In silenzio, quando meno se l'aspetta, gli si punta la canna della pistola alla nuca e si fa fuoco. Il boss voleva che le esecuzioni avvenissero in un'intimità amicale. Augusto La Torre non sopportava che la sua persona fosse ridicolizzata, non voleva che qualcuno pronunciando il suo nome potesse associarci subito dopo una risata. Nessuno doveva osare.

Luigi Pellegrino, conosciuto da tutti come Gigiotto, era invece uno di quelli a cui piaceva spettegolare su tutto ciò che riguardava i potenti della sua città. Sono molti i ragazzi che in terra di camorra bisbigliano dei gusti sessuali dei boss, delle orge dei capizona, delle figlie zoccole degli imprenditori dei clan. Ma in genere i boss tollerano, hanno davvero altro a cui pensare e poi è inevitabile che sulla vita di chi comanda si inneschi una sorta di vero e proprio gossip. Gigiotto spettegolava sulla moglie del boss, raccontava in giro di averla vista incontrarsi con uno degli uomini più fidati di Augusto. L'aveva vista accompagnata agli incontri con il suo amante dall'autista stesso del boss. Il numero uno dei La Torre, che tutto gestiva e controllava, aveva la moglie che gli faceva le corna sotto il naso e non se ne accorgeva. Gigiotto raccontava i suoi pettegolezzi con varianti sempre più dettagliate e sempre diverse. Che fosse invenzione o meno, in paese la storiella della moglie del boss che se la intendeva col braccio destro di suo marito ormai la raccontavano tutti e tutti erano bene attenti a citarne la fonte: Gigiotto. Un giorno Gigiotto stava camminando per il centro di Mondragone quando sentì il rumore di una motocicletta avvicinarsi un po' troppo al marciapiede. Appena intuì la decelerazione del motore, iniziò a scappare. Dalla moto partirono dei colpi ma Gigiotto, zigzagando tra pali della luce e persone, riuscì a far scaricare l'intero caricatore al killer che stava ancorato dietro la schiena del motociclista. Il motociclista così dovette rincorrere a piedi Gigiotto che si era rifugiato in un bar tentando di nascondersi dietro al bancone. Tirò fuori la pistola e sparò alla testa davanti a decine di persone che un attimo dopo l'omicidio si dileguarono silenziose e veloci. Secondo le indagini, a volerlo eliminare fu il reggente del clan, Giuseppe Fragnoli, che senza neanche chiedere l'autorizzazione decise di togliere di mezzo la malalingua che tanto stava infangando l'immagine del boss.

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