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Noi, Pastori delle Chiese della Campania, non intendiamo, però, limitarci a denunciare queste situazioni; ma, nell'ambito delle nostre competenze e possibilità, intendiamo contribuire al loro superamento, anche mediante una revisione e integrazione dei contenuti e dei metodi dell'azione pastorale.

Don Peppino iniziò a mettere in dubbio la fede cristiana dei boss, a negare esplicitamente che ci potesse essere alleanza tra il credo cristiano e il potere imprenditoriale, militare e politico dei clan. In terra di camorra il messaggio cristiano non viene visto in contraddizione con l'attività camorristica: il clan che finalizza la propria attività al vantaggio di tutti gli affiliati considera il bene cristiano rispettato e perseguito dall'organizzazione. La necessità di uccidere i nemici e i traditori viene vista come una trasgressione lecita, il non uccidere inscritto nelle tavole di Mosè può nell'argomentazione dei boss essere sospeso se l'omicidio avviene per un motivo superiore, ovvero la salvaguardia del clan, degli interessi dei suoi dirigenti, del bene del gruppo e quindi di tutti. Ammazzare è un peccato che verrà compreso e perdonato da Cristo in nome della necessità dell'atto.

A San Cipriano d'Aversa Antonio Bardellino affiliava con il rituale della pungitura, usato anche da Cosa Nostra: una modalità che apparteneva a rituali che progressivamente sono andati scomparendo. Il polpastrello destro dell'aspirante veniva punto con uno spillo e il sangue fatto colare sull'immagine della Madonna di Pompei. Poi questa veniva fatta bruciare su una candela e passata di mano in mano a tutti i dirigenti del clan che erano disposti in piedi lungo il perimetro di una tavola. Se tutti gli affiliati baciavano la Madonna, il nuovo presentato diveniva ufficialmente parte del clan. La religione è un riferimento costante per l'organizzazione camorristica, non soltanto come forma scaramantica o residuo culturale ma come forza spirituale che ne determina le scelte più intime. Le famiglie camorristiche, e in particolar modo i boss maggiormente carismatici, spesso considerano il proprio agire come un calvario, un assumersi sulla propria coscienza il dolore e il peso del peccato per il benessere del gruppo e degli uomini su cui regnano.

A Pignataro Maggiore il clan Lubrano fece restaurare a proprie spese un affresco raffigurante una Madonna. È detta la "Madonna della camorra", poiché a lei si sono rivolti per chiedere protezione i più importanti latitanti di Cosa Nostra fuggiti dalla Sicilia a Pignataro Maggiore. Non è difficile infatti immaginarsi Totò Rima, Michele Greco, Luciano Liggio o Bernardo Provenzano, chini sugli scranni dinanzi all'affresco della Madonna, che implorano di essere illuminati nelle loro azioni e protetti nelle loro fughe.

Quando Vincenzo Lubrano venne assolto organizzò un pellegrinaggio con diversi pullman a San Giovanni Rotondo per ringraziare Padre Pio, artefice, secondo lui, dell'assoluzione. Statue a grandezza naturale di Padre Pio, copie di terracotta e bronzo del Cristo che campeggia a braccia aperte sul Pào de Agucar di Rio, sono presenti in moltissime ville di boss della camorra. A Scampia nei laboratori di stoccaggio della droga spesso vengono tagliati trentatré panetti di hashish per volta, come gli anni di Cristo. Poi ci si ferma per trentatré minuti, si fa il segno della croce e si riprende il lavoro. Una sorta di omaggio a Cristo per propiziarsi guadagni e tranquillità. Lo stesso accade con le bustine di coca che spesso, prima della distribuzione ai pusher, il capozona bagna e benedice con l'acqua di Lourdes sperando che le partite non uccidano nessuno, anche perché della cattiva qualità della roba ne risponderebbe lui direttamente.

Il Sistema camorra è un potere che non coinvolge soltanto i corpi, né dispone soltanto della vita di tutti, ma pretende di artigliare anche le anime. Don Peppino volle iniziare a fare chiarezza sulle parole, sui significati, sui perimetri dei valori.

La camorra chiama "famiglia" un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all'onestà; la camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di "famiglia", strumentalizzando persino i sacramenti. Per il cristiano, formato alla scuola della Parola di Dio, per "famiglia" si intende soltanto un insieme di persone unite tra loro da una comunione di amore, in cui l'amore è servizio disinteressato e premuroso, in cui il servizio esalta chi lo offre e chi lo riceve. La camorra pretende di avere una sua religiosità, riuscendo, a volte, a ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime.

Il documento tentò addirittura di entrare nel merito dei sacramenti. Tenere lontano ogni sorta di sovrapposizione tra la comunione, il ruolo del padrino, il matrimonio e le strategie camorristiche. Allontanare i patti, le alleanze dei clan dai simboli religiosi. Al solo pensiero di pronunciare una cosa del genere i preti del luogo sarebbero scappati in bagno dalla paura tenendosi lo stomaco in mano. Chi avrebbe cacciato dall'altare un boss pronto a battezzare il figlio di un affiliato? Chi avrebbe rifiutato di celebrare un matrimonio solo perché frutto dell'alleanza tra famiglie? Don Peppino era stato chiaro.

Non permettere che la funzione di "padrino" nei sacramenti che lo richiedono, sia esercitata da persone di cui non sia notoria l'onestà della vita privata e pubblica e la maturità cristiana. Non ammettere ai sacramenti chiunque tenti di esercitare indebite pressioni in carenza della necessaria iniziazione sacramentale.

Don Peppino sfidò il potere della camorra nel momento in cui Francesco Schiavone, Sandokan, era latitante, quando si nascondeva nel bunker sotto la sua villa in paese, mentre le famiglie Casalesi erano in guerra tra loro e i grandi affari del cemento e dei rifiuti divenivano le nuove frontiere dei loro imperi. Don Peppino non voleva fare il prete consolatore, che accompagna le bare dei ragazzini soldato massacrati alla fossa e bisbiglia "fatevi coraggio" alle madri in nero. In un'intervista dichiarò: "Noi dobbiamo fendere la gente per metterla in crisi". Prese anche posizione politica, chiarendo che la priorità sarebbe stata la lotta al potere politico come espressione di quello imprenditorial-criminale, che l'appoggio sarebbe andato ai progetti concreti, alle scelte di rinnovamento, non ci sarebbe stata alcuna imparzialità da parte sua. "Il partito si confonde con il suo rappresentante, spesso i candidati favoriti dalla camorra non hanno né politica né partito, ma solo un ruolo da giocare o un posto da occupare." L'obiettivo non era vincere la camorra. Come lui stesso ricordava "vincitori e vinti sono sulla stessa barca". L'obiettivo era invece comprendere, trasformare, testimoniare, denunciare, fare l'elettrocardiogramma al cuore del potere economico come un modo per comprendere come spaccare il miocardio dell'egemonia dei clan.

Mai per un momento nella mia vita mi sono sentito devoto, eppure la parola di don Peppino aveva un'eco che riusciva ad andare oltre il tracciato religioso. Foggiava un metodo nuovo che andava a rifondare la parola religiosa e politica. Una fiducia nella possibilità di azzannare la realtà, senza lasciarla se non dilaniandola. Una parola capace di inseguire il percorso del danaro seguendone il tanfo.

Si crede che il danaro non abbia odore, ma questo è vero solo nella mano dell'imperatore. Prima che giunga nel suo palmo, pecunia olet. E è un puzzo di latrina. Don Peppino operava in una terra dove il danaro reca traccia del suo odore, ma per un attimo. L'istante in cui viene estratto, prima che diventi altro, prima che possa trovare legittimazione. Simili odori si sanno riconoscere solo quando le narici si strofinano contro ciò che li emana. Don Peppino Diana aveva compreso che doveva tenere la faccia su quella terra, attaccarla sulle schiene, sugli sguardi, non allontanarsi per poter continuare a vedere e denunciare, e capire dove e come le ricchezze delle imprese si accumulano e come si innescano le mattanze e gli arresti, le faide e i silenzi. Tenendo sulla punta della lingua lo strumento, l'unico possibile per tentare di mutare il suo tempo: la parola. E questa parola, incapace al silenzio, fu la sua condanna a morte. I suoi killer non scelsero una data a caso. Il giorno del suo onomastico, il 19 marzo del 1994. Mattina prestissimo. Don Peppino non si era ancora vestito con gli abiti talari. Stava nella sala riunioni della chiesa, vicino allo studio. Non era immediatamente riconoscibile.

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