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I visi pubblicati in successione il giorno dopo dai giornali, uno a fianco all'altro, i visi dei boss, dei gregari, dei ragazzini affiliati e di vecchi avanzi di galera, rappresentavano non un girone infernale di criminali, ma tasselli di un mosaico di potere che nessuno per vent'anni aveva potuto ignorare o sfidare. Dopo la sentenza "Spartacus", i boss in carcere iniziarono a lanciare minacce implicite ed esplicite ai giudici, ai magistrati, ai giornalisti, a tutti coloro che ritenevano responsabili di aver fatto di un manipolo di manager del cemento e delle bufale dei killer agli occhi della legge. II senatore Lorenzo Diana continuava a essere il bersaglio privilegiato del loro odio. Con lettere inviate a giornali locali, esplicite minacce lanciate durante i processi. Subito dopo la

sentenza "Spartacus" alcune persone erano entrate nell'allevamento di trote del fratello del senatore, le avevano sparse d'intorno, e fatte morire lentamente, lasciandole dimenare in terra, asfissiate dall'aria. Alcuni pentiti avevano addirittura segnalato tentativi di agguato da parte di "falchi" dell'organizzazione contro il senatore. Operazioni poi fermate dalla mediazione dei settori più diplomatici del clan. Ad averli dissuasi era stata anche la scorta. La scorta armata non è mai un limite per i clan. Non hanno paura di auto blindate e poliziotti, ma è un segnale, il segnale che quell'uomo che vogliono eliminare non è solo, non potranno facilmente sbarazzarsene come se si trattasse di un individuo la cui morte non interesserebbe che la propria cerchia di familiari. Lorenzo Diana è uno di quei politici che ha deciso di mostrare la complessità del potere casalese e non di denunciare genericamente dei criminali. È nato a San Cipriano d'Aversa, ha vissuto osservando da vicino l'emergere del potere di Bardellino e di Sandokan, le faide, i massacri, gli affari. Può, più di ogni altro, raccontare quel potere, e i clan temono la sua conoscenza e la sua memoria. Temono che da un momento all'altro possa risvegliarsi l'attenzione dei media nazionali sul potere casale-se, temono che in Commissione Antimafia il senatore possa denunciare ciò che ormai la stampa ignora, relegando tutto a crimine di provincia. Lorenzo Diana è uno di quei rari uomini che sa che combattere il potere della camorra comporta una pazienza certosina, quella di ricominciare ogni volta da capo, dall'inizio, tirare a uno a uno i fili della matassa economica e raggiungerne il capo criminale. Lentamente ma con costanza, con rabbia, anche quando ogni attenzione si dilegua, anche quando tutto sembra davvero inutile e perso in una metamorfosi che lascia alternare poteri criminali a poteri criminali, senza sconfiggerli mai.

Con il processo giunto a sentenza tra i Bidognetti e gli Schiavone poteva scoppiare un conflitto aperto. Per anni si erano fronteggiati attraverso vari clan a loro confederati, poi gli affari comuni avevano sempre prevalso sui contrasti.

I Bidognetti dispongono di potenti batterie di fuoco, il loro territorio è il nord del casertano, un dominio che giunge sino alla costa domizia. Ferocissimi, a Castelvolturno avevano bruciato vivo un barista, Francesco Salvo, titolare del locale in cui lavorava, il Tropicana, punito per aver osato sostituire i videopoker dei Bidognetti con quelli gestiti da un clan rivale. I Mezzanotte erano arrivati a lanciare una bomba al fosforo contro l'auto di Gabriele Spenuso, mentre camminava sulla Nola-Villa Literno. Domenico Bidognetti aveva ordinato l'eliminazione di Antonio Magliulo nel 2001, perché aveva osato fare avances, nonostante fosse un uomo sposato, a una ragazza, cugina di un boss. L'avevano legato a una sedia, su una spiaggia, e dinanzi al mare avevano iniziato a imbottirgli la bocca e le narici di sabbia. Per respirare Magliulo inghiottiva e sputava sabbia e cercava di soffiarla fuori dal naso. Vomitava, masticava, agitava il collo, impastava con la saliva la rena creando una specie di primitivo cemento, una materia collosa che lentamente lo affogò. La ferocia dei Mezzanotte era direttamente proporzionale al potere imprenditoriale. Legati al ciclo dei rifiuti, i Bidognetti avevano stretto — secondo diverse indagini della DDA di Napoli del 1993 e del 2006 — alleanze con la massoneria deviata della P2. Smaltivano illegalmente, e a prezzi molto convenienti, i rifiuti tossici di imprenditori legati alla loggia. Un nipote di Cicciotto di Mezzanotte, Gaetano Cerci, arrestato nell'ambito dell'operazione "Adelphi" sulle ecomafie, era il contatto tra la camorra casalese e alcuni massoni, e si incontrava molto spesso per affari direttamente con Licio Gelli. Affare che gli inquirenti sono riusciti a scoprire nel volume finanziario di una sola impresa coinvolta e che è stato quantificato in oltre trentacinque milioni di euro. I due boss, Bidognetti e Schiavone, entrambi in galera, entrambi con ergastoli sulle spalle, avrebbero potuto tentare di sfruttare ognuno la condanna dell'altro per sguinzagliare i propri uomini e tentare di eliminare il clan rivale. Ci fu un momento in cui tutto sembrò crollare in un enorme conflitto, di quelli che portano morti a grappolo ogni giorno.

Nella primavera del 2005 il figlio più piccolo di Sandokan era andato a una festa a Parete, territorio dei Bidognetti, e qui aveva iniziato — secondo le indagini — a corteggiare una ragazza, nonostante questa fosse già accompagnata. Il rampollo degli Schiavone era senza scorta e credeva che il solo fatto di essere figlio di Sandokan lo avrebbe reso immune da ogni tipo di aggressione. Non andò così. Un gruppetto di persone lo trascinò fuori casa e lo riempì di schiaffi, di pugni e calci nel sedere. Dopo il mazziatone dovette correre in ospedale a farsi suturare la testa. Il giorno dopo una quindicina di persone, in moto e in macchina, si presentarono dinanzi al bar Penelope, dove si ritrovavano solitamente i ragazzi che avevano pestato il rampollo. Entrarono con mazze da baseball e sfasciarono ogni cosa, pestarono a sangue chiunque si trovasse dentro, ma non riuscirono a individuare i responsabili dell'affronto a Schiavone, che molto probabilmente erano riusciti a scappare, forse da un'altra uscita del bar. Allora il commando li aveva rincorsi in strada e aveva iniziato a sparare una decina di colpi, tra la gente, in piazza, colpendo all'addome un passante. Per risposta il giorno dopo tre moto giunsero al caffè Matteotti di Casal di Principe, dove spesso si ritrovano gli affiliati più giovani del clan Schiavone. I motociclisti scesero lentamente, per dare il tempo ai passanti di scappare, e iniziarono anche loro a sfasciare ogni cosa. Vennero segnalate scazzottate e più di sedici accoltellati. L'aria era pesante, una nuova guerra era pronta a partire.

A far aumentare la tensione giunse inaspettata la confessione di un pentito, Luigi Diana, il quale aveva dichiarato, secondo un giornale locale, che Bidognetti era il responsabile del primo arresto di Schiavone, era lui che aveva collaborato con i carabinieri rivelando la latitanza in Francia del boss. Le batterie di fuoco si stavano preparando e i carabinieri erano pronti a raccogliere i cadaveri della mattanza. Tutto fu fermato da Sandokan stesso, con un gesto pubblico. Nonostante il regime di carcere duro riuscì a mandare una lettera aperta a un giornale locale, pubblicata il 21 settembre 2005 direttamente in prima pagina. Il boss, come un manager affermato, risolse il conflitto smentendo ciò che aveva detto il pentito, a cui tra l'altro poche ore dopo il pentimento avevano ucciso un familiare:

"La soffiata, anzi chi mise fiato alle trombe e permise il mio arresto in Francia, fu, come accertato probatoriamente fatta da Carmine Schiavone, e non già Cicciotto Bidognetti. La verità è che tale individuo che risponde al nome del pentito Luigi Diana dice falsità e vuole mettere zizzania per tornaconti personali."

Inoltre "suggerisce" al direttore del giornale di raccontare bene le notizie:

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