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Dalla verga il ghiaccio esplodeva in getti di vapore.

— Bene, e se questo accade di nuovo, diventerò veramente furiosa, sono stata chiara? — concluse la vecchia strega.

Tagliangolo abbassò le mani e le corse accanto.

— Ti sei fatta male?

Lei scosse la testa. — È come tenere in mano un ghiacciuolo — rispose. — Andiamo, non abbiamo tempo di starcene qui a chiacchierare.

— Come facciamo a tornare indietro?

— Oh, mostra di avere un po’ di spina dorsale, uomo, per amor del cielo! Voleremo.

La Nonnina agitò la sua scopa, che l’Arcicancelliere guardò con aria dubbiosa.

— Su quella?

— Naturale. Forse che i maghi non volano sulle loro verghe?

— È poco dignitoso.

— Se posso adattarmi io, puoi farlo anche tu.

— Sì, ma è sicura?

Lei lo incenerì con un’occhiata.

— Intendi in senso assoluto? — chiese. — O, diciamo, paragonato a rimanere qui su una lastra di ghiaccio che si scioglie?

— È la prima volta che volo su una scopa — osservò Tagliangolo.

— Davvero.

— Credevo che bastasse salirci e quella volasse. Non sapevo che bisognava mettersi a correre su e giù e farle tutti quegli urli.

— È questione di abilità che si acquista con l’esercizio.

— E poi — continuò il mago — credevo che volassero più veloci e, ad essere franchi, più alte.

— Che vuoi dire, più alte? — Girarono per risalire il fiume, con la Nonnina che si sforzava di manovrare per compensare il peso del mago sul sellino. Come tutti i passeggeri che viaggiano sul sellino, sin dall’alba dei tempi, lui persisteva a inclinarsi dalla parte sbagliata.

— Be’, almeno un po’ di più al di sopra degli alberi — spiegò Tagliangolo. abbassandosi quando un ramo gocciolante gli portò via il cappello.

— Non c’è niente di sbagliato in questa scopa a cui non si potrebbe rimediare se tu perdessi qualche chilo — lo rimbeccò lei. — O preferiresti scendere e camminare?

— A parte il fatto che metà del tempo i miei piedi toccano comunque terra, non vorrei metterti in imbarazzo. Se mi avessero chiesto — continuò il mago — di elencare tutti i pericoli del volo, sai, non mi sarebbe mai venuto in mente d’includerci di avere le gambe massacrate dalle felci alte.

Senza voltarsi, lo sguardo cupo fisso davanti a sé, la Nonnina gli chiese: — Stai fumando? Qualcosa brucia.

— Era solo per calmarmi i nervi, signora, con tutto questo precipitarci a capofitto nell’aria.

— Be’, spegni immediatamente. E reggiti.

La scopa rollò all’improvviso in su e aumentò la velocità tipo jogging geriatrico.

— Signor Mago.

— Ohilà?

— Quando dicevo di reggerti…

— Sì?

— Non intendevo lì.

Una pausa.

— Oh! Sì. Capisco. Mi dispiace terribilmente.

— Va bene.

— La mia memoria non è più quella di un tempo… Ti assicuro… non intendevo mancarti di rispetto.

— D’accordo.

Volarono per un momento in silenzio.

— Tuttavia — riprese la Nonnina in tono cortese — penso che, tutto sommato, preferirei che spostassi le mani.

La pioggia batteva sulle lamiere di piombo del tetto dell’Università Invisibile e scorreva nelle grondaie dove i nidi delle cornacchie, abbandonati fin dall’estate, galleggiavano come barche mal costruite. L’acqua gorgogliava nei vecchi condotti incrostati. Si fece strada sotto le tegole e salutò i ragni annidati sotto i cornicioni. Rimbalzò dai timpani e formò laghi segreti in alto tra le guglie.

Interi sistemi ecologici vivevano sui tetti sterminati dell’Università: a paragone Gormenghast sembrava un capanno degli attrezzi su un terreno della ferrovia. Uccelli cantavano nelle minuscole giungle cresciute dai semi di mela e quelli delle erbacce; ranocchiette nuotavano nelle grondaie superiori e una colonia di formiche si affaccendava a inventare una civiltà interessante e complessa.

Una cosa che l’acqua non poteva fare era gorgogliare fuori dai doccioni ornamentali allineati intorno ai tetti. Questo perché i doccioni se ne andavano a rifugiarsi nelle soffitte al primo segnale di pioggia. Loro sostenevano che la bruttezza non era sinonimo di stupidità.

Piovevano ruscelli. Piovevano fiumi. Piovevano mari. Ma soprattutto pioveva attraverso il tetto della Grande Sala, dove il duello tra la Nonnina e Tagliangolo aveva lasciato un enorme buco. E a Treatle sembrava che in qualche modo piovesse su lui personalmente.

Stava in piedi su un tavolo a organizzare le squadre di studenti che staccavano dalle pareti i quadri e le antiche tappezzerie prima che si bagnassero. Su un tavolo perché il pavimento era già sommerso da diversi centimetri di acqua.

Non acqua piovana, purtroppo. Quella era acqua dotata di una vera personalità, la personalità inconfondibile che l’acqua acquista dopo un lungo viaggio attraverso una contrada melmosa. Aveva la consistenza dell’autentica acqua dell’Ankh… troppo dura da bere, troppo liquida da arare.

Il fiume aveva superato gli argini e un milione di rivoletti si spandevano all’intorno, allagando le cantine e giocando a rimpiattino sotto le pietre del lastrico. Di tanto in tanto si udiva il rombo distante di una magia dimenticata in un sotterraneo allagato, che scoppiava e liberava il proprio potere. Treatle era tutt’altro che entusiasta dei gorgogli e dei sibili che sfuggivano in superficie.

Pensò una volta di più quanto gli sarebbe piaciuto essere il tipo di mago che vive in una piccola grotta a collezionare erbe, a coltivare pensieri profondi e conoscere il linguaggio dei gufi. Ma probabilmente la grotta sarebbe stata umida e le erbe velenose. E, in fin dei conti, Treatle non sapeva esattamente quali pensieri fossero davvero profondi.

Scese dal tavolo goffamente e sguazzò nelle acque scure e vorticose. Be’ lui aveva fatto del suo meglio. Aveva cercato di convincere i maghi anziani a riparare il tetto con la magia. Ma dopo avere discusso senza costrutto degli incantesimi da usare, loro si erano trovati unanimi nel sostenere che in ogni caso quello era lavoro da artigiani.

"Eccoli lì, i maghi" pensava cupamente mentre passava sotto gli archi gocciolanti "sempre a scandagliare l’infinito e a non curarsi mai del definito. Specie in materia di lavori domestici. Non abbiamo mai avuto questi guai prima dell’arrivo di quella donna."

Con l’acqua che gli faceva ciac ciac nelle scarpe, prese a salire la scala illuminata in quel momento da un lampo particolarmente violento. Aveva la sgradevole certezza che, mentre nessuno avrebbe potuto biasimarlo per quel putiferio, tutti l’avrebbero fatto. Sollevò l’orlo della veste e lo strizzò sconsolato, poi tirò fuori la sua borsa del tabacco.

Era una bella borsa verde impermeabile. Con il risultato che tutta l’acqua che ci era entrata, non poteva uscirne. Una cosa indescrivibile.

Trovò il suo pacchetto di cartine. Si erano sciolte in un ammasso. Come la leggendaria banconota da una sterlina trovata nelle tasche posteriori dei pantaloni, dopo essere stati lavati, centrifugati, asciugati e stirati.

— Accidenti! — imprecò con tutti i sentimenti.

— Ehi! Treatle!

Treatle si guardò intorno. Era stato l’ultimo a lasciare la sala, dove ora perfino le panche cominciavano a galleggiare. I punti dove la magia filtrava su dalle cantine erano indicati da mulinelli e piccole pozze gorgoglianti, ma non si vedeva nessuno.

A meno che, naturalmente, una delle statue avesse parlato. Erano troppo pesanti da rimuovere e Treatle ricordava di avere detto agli studenti che una bella lavata probabilmente gli avrebbe fatto bene.

Guardando adesso i loro visi severi, lo rimpianse. Le statue di maghi defunti, e un tempo molto potenti, parevano a volte più realistiche di quanto le statue abbiano il diritto di essere. Forse avrebbe dovuto parlare a voce bassa.

— Sì? — si arrischiò a rispondere, acutamente conscio dei loro sguardi di pietra.

— Quassù, sciocco!

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