Udì una risata. Era il genere di risata…
Fondamentalmente, era p’ch’zarni’chiwkov. Questa parola, che a pronunciarla si rischia di otturare l’epiglottide, viene usata raramente sul Disco. Fanno eccezione i linguisti acrobati profumatamente pagati, e naturalmente, la piccola tribù dei K’turni che l’ha inventata. Non ha un sinonimo diretto, sebbene nella lingua Cumhoolie la parola "squernt" (sensazione che si prova nello scoprire che il precedente occupante del gabinetto ha usato tutta la carta) ci si avvicini come profondità di sentimento.
La traduzione più fedele è la seguente:
il debole e sgradevole rumore di una spada sguainata proprio dietro di noi nel preciso momento in cui pensavamo di esserci liberati dei nostri nemici
Tuttavia coloro che parlano il K’turni sostengono che essa non renda il senso di sudore freddo, arresto cardiaco, budella contorte che c’è nell’originale.
Era quel genere di risata.
Esk si girò lentamente. Simon scivolò verso di lei sulla sabbia, con le mani a coppa intorno alla bocca e gli occhi chiusi. — Credevi davvero che sarebbe stato tanto facile? — disse. O qualcun’altro lo disse: non sembrava la voce di Simon, ma di dozzine di voci che parlassero tutte insieme.
— Simon? — lo chiamò, incerta.
— Lui non ci serve più — disse la Creatura con la forma di Simon. — Ci ha mostrato il cammino, ragazzina. Adesso rendici ciò che è nostro.
Esk indietreggiò.
— Io non credo che ti appartenga, chiunque tu sia — dichiarò.
La faccia davanti a lei aprì gli occhi. In essi non c’era altro che oscurità… non un colore, solo buchi in un altro spazio.
— Potremmo dire che se ce lo dai, saremmo misericordiosi. Potremmo dire che ti lasceremmo andare via di qui con la tua forma. Ma dirlo non significherebbe granché, vero?
— Non vi crederei — disse Esk.
— Be’, allora…
Lo pseudo-Simon sogghignò.
— Stai soltanto ritardando l’inevitabile — dichiarò.
— Mi sta bene.
— Potremmo riprendercelo comunque.
— Prendetelo, allora. Ma non credo che potete farlo. Non potete prendere niente, se non vi viene dato, non è così?
Giravano in tondo.
— Ce lo darai — affermò lo pseudo-Simon.
Ora alcune delle altre Creature si avvicinavano, avanzando nel deserto con un’orribile andatura a balzelloni.
— Ti stancherai — continuò quello. — Noi possiamo aspettare. Siamo molto bravi ad aspettare.
Fece una finta a sinistra, ma lei si girò rapida a fronteggiarlo.
— Tutto questo non ha importanza — disse. — È solo un sogno e nei sogni è impossibile farsi male.
L’Essere si fermò e la guardò con i suoi occhi vuoti.
— Nel vostro mondo avete una parola. Credo che si dica "psicosomatico"?
— Mai sentita — ribatté Esk sprezzante.
— Significa che ci si può fare male nei sogni. E la cosa più interessante è che, se muori in sogno, rimani qui. Sarebbe cariiiino.
Esk guardò di sottecchi le montagne lontane, che si stendevano all’orizzonte simili ad ammassi di fango sciolto. Non c’erano alberi, nemmeno rocce. Solo sabbia e fredde stelle e…
Percepì il movimento più che udirlo e si girò tenendo nelle mani la piramide a guisa di clava. Colpì lo pseudo-Simon a mezz’aria con un rumore sordo. Ma non appena quello toccò terra, fece una capriola in avanti e si rimise dritto con spiacevole facilità. Ma l’aveva sentita trattenere il respiro e aveva visto il dolore nei suoi occhi. Si fermò.
— Ah, questo ti fa male, vero? Non ti piace vedere un altro soffrire. Non mi sembra.
L’essere si voltò e, a un suo cenno, due delle alte Creature si avvicinarono e lo afferrarono saldamente per le braccia.
I suoi occhi cambiarono. I due fori neri si trasformarono di nuovo negli occhi di Simon. Li alzò sulle Creature ai suoi lati e cercò di lottare, ma una di esse gli avvolgeva un polso con diverse paia di tentacoli e l’altra gli abbrancava il braccio con due enormi pinze da aragosta.
Quindi scorse Esk e il suo sguardo cadde sulla piccola piramide di vetro.
— Scappa! — sibilò. — Portala lontano da qui! Non lasciare che la prendano! — Fece una smorfia di dolore mentre la pinza aumentava la stretta sul suo braccio.
— È un trucco? Chi sei in realtà? — domandò la bambina.
— Non mi riconosci? — La sua voce era disperata. — Cosa ci fai nei miei sogni?
— Se questo è un sogno, allora vorrei svegliarmi, ti prego — disse lei.
— Ascolta. Devi scappare adesso, mi capisci? Non startene lì a bocca aperta.
DALLA A NOI, disse una voce fredda nella testa di Esk.
Esk guardò prima la piramide di vetro, con il suo piccolo mondo indifferente, e quindi Simon. Era così piena di sconcerto che si era dimenticata di richiudere la bocca.
— Ma che cosa è?
— Guardala bene!
Esk scrutò nell’involucro di vetro. Se teneva gli occhi socchiusi, le pareva che il piccolo Disco fosse granuloso, come se fosse composto da milioni di macchioline minuscole. Se le fissava attentamente…
— Sono soltanto numeri! — esclamò. — Il mondo intero… è tutto fatto di numeri…
— Non è il mondo, è un’idea del mondo — ribatté Simon. — Sono io che l’ho creato per loro. Loro non possono raggiungerci, capisci, ma qui le idee hanno una forma. Le idee sono reali!
DALLA A NOI.
— Ma le idee non possono fare del male a nessuno!
— Io ho trasformato le cose in numeri per comprenderle. Ma loro vogliono avere il controllo — disse amaro Simon. — Loro sono penetrati nei miei numeri come…
Gridò.
DALLA A NOI O LO FAREMO A PEZZI.
Esk guardò la faccia da incubo che vedeva più vicina.
— Come so che posso fidarmi di voi? — chiese.
TU NON PUOI FIDARTI DI NOI. MA NON HAI SCELTA.
Esk fissò il cerchio di volti che perfino un necrofilo avrebbe disdegnato. Volti messi insieme con gli scarti di un pescivendolo, volti presi a casaccio tra le creature celate nelle fosse oceaniche e nelle caverne infestate dalle apparizioni. Volti non abbastanza umani per mostrare una espressione malvagia o lasciva. E tuttavia minacciosi come un gorgo sospetto vicino a un incauto bagnante.
Lei non poteva fidarsi di loro. Ma non aveva scelta.
Intanto un’altra vicenda si svolgeva in un luogo lontano quanto lo spessore di un’ombra.
Gli apprendisti maghi erano tornati di corsa nella Grande Sala, dove Tagliangolo e la Nonnina erano ancora avvinghiati nell’equivalente magico di una presa di lotta libera. Sotto il corpo della Nonnina le lastre di pietra erano mezze fuse e piene di crepe e dietro Tagliangolo, il tavolo aveva messo le radici e già portava una ricca messe di ghiande.
Uno degli studenti si era guadagnato varie ricompense al valore, avendo osato di tirare il bordo del mantello dell’Arcicancelliere…
E adesso si affollavano tutti nella stanzetta e guardavano i due corpi.
Tagliangolo convocò i medici del corpo e i medici della mente, che si misero all’opera. Nella stanza si diffuse il ronzio della magia.
La Nonnina batté una mano sulla spalla del grande mago.
— Una parola all’orecchio, giovanotto — gli disse.
Lui sospirò. — Non direi giovane, signora, non direi proprio. — Si sentiva svuotato. Erano passati decenni da quando aveva duellato con la magia, sebbene questa fosse cosa abbastanza comune tra gli studenti. Aveva il brutto presentimento che alla fine la Nonnina avrebbe vinto. Combattere con lei, era come schiacciarsi una mosca sul naso. Non riusciva a capire come gli fosse venuto in mente di provarci.
La Nonnina lo condusse nel corridoio e a un sedile sotto la finestra, voltato l’angolo. La vecchia si sedette e appoggiò la scopa alla parete. La pioggia tamburellava forte sui tetti e delle saette indicavano che si stava avvicinando alla città un temporale degno delle Ramtop.
— È stata una dimostrazione davvero notevole — disse. — Sei stato per vincere una o due volte.