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Cadde dalia paglia e atterrò sui Bagaglio.

— Oh, sei qui, tu? Spero ti vergognerai di te stesso — gli disse.

Il Bagaglio sembrò sconcertato.

— Comunque, voglio pettinarmi. Apri — ordinò l’ometto.

Il Bagaglio, compiacente, spalancò il coperchio. Duefiori frugò tra le borse e le scatole finché trovò un pettine e uno specchio e mise riparo ai danni della notte. Poi guardò severamente il Bagaglio.

— Immagino che non hai intenzione di dirmi cosa hai fatto con l’Octavo?

Per descrivere l’espressione del Bagaglio l’unico aggettivo sarebbe "legnoso".

— Benissimo. Vieni via, allora.

Duefiori uscì nella luce del sole, un po’ troppo vivida per i suoi gusti, e camminò senza meta per la strada. Ogni cosa aveva un aspetto fresco e nuovo, perfino gli odori, ma in giro c’era poca gente. Era stata una lunga notte.

Trovò Scuotivento ai piedi della Torre dell’Arte a dirigere una squadra di operai. Questi avevano innalzato sul tetto una specie di cavalletto e stavano calando a terra i maghi di pietra. Gli parve che fosse assistito da una scimmia, ma Duefiori non era di umore da sorprendersi di nulla.

— Potranno tornare com’erano? — chiese.

Scuotivento si voltò. — Cosa? Ah, sei tu. No, probabilmente no. A ogni modo, temo che abbiano fatto cadere il povero Wert. Sul selciato da centocinquanta metri.

— Potrai rimediare?

— Farci un bel giardino roccioso.

— Sei molto allegro. — Nella voce di Duefiori vibrò una nota di rimprovero. — Non sei andato a letto?

— Strano, non riuscivo a dormire — rispose Scuotivento. — Sono uscito a prendere una boccata d’aria e nessuno sembrava sapesse cosa fare. Così mi sono messo a radunare la gente — indicò il bibliotecario, che cercava di tenergli la mano — e ho cominciato a organizzare un po’ le cose. Bella giornata, vero? L’aria è come il vino.

— Scuotivento, ho deciso che…

— Sai, sto pensando che potrei iscrivermi di nuovo — rispose tutto allegro l’amico. — Credo che questa volta potrei veramente farcela. Mi sento in grado di padroneggiare la magia e laurearmi a pieni voti. Dicono che, se si ottiene il summa cum laude, dopo uno se la passa bene…

— Ottimo, perché…

— E poi, ora al vertice c’è molto spazio, dato che tutti i pezzi grossi serviranno da fermaporta, e…

— Io me ne torno a casa.

— …un ragazzo sveglio con un po’ di esperienza del mondo potrebbe… che cosa?

— Oook?

— Ho detto che torno a casa — ripeté Duefiori, che tentava cortesemente di scuotersi di dosso il bibliotecario, il quale cercava di togliergli i pidocchi.

— Quale casa? — Scuotivento era meravigliato.

— Casa, casa. Casa mia. Dove vivo — spiegò pazientemente l’ometto. — Al di là del mare. Sai. da dove sono venuto. Vorrebbe per piacere smetterla? — (rivolto al bibliotecario).

— Oh! — fece il mago.

— Oook? — fece il bibliotecario.

Dopo una pausa. Duefiori riprese: — Vedi, mi è venuto in mente la notte scorsa. Ho pensato, be’, il fatto è, tutto quel viaggiare e vedere le cose è bello. Ma ci si può anche divertire un sacco dall’esserci stato. Sai, incollare tutte le immagini in un libro e ricordarsi le cose.

— Davvero?

— Oook?

— Oh, sì. L’importante del fatto di avere un sacco di cose da ricordare è che dopo si deve andare in qualche posto dove potersene ricordare, capisci? Non si è stati mai realmente da nessuna parte, finché non si è tornati a casa. È così che la intendo io.

Scuotivento si ripeté mentalmente la frase. Che non gli parve migliore nemmeno la seconda volta.

— Oh! — esclamò ancora. — Be’, giusto. Se è così che la vedi tu. Allora, quando parti?

— Oggi, penso. Ci dev’essere una nave che fa una parte del viaggio.

— Suppongo di sì. — Scuotivento era imbarazzato. Si guardò i piedi. Guardò il cielo. Si schiarì la gola.

— Ne abbiamo passate delle belle insieme, eh? — disse Duefiori, dandogli una gomitata nelle costole.

— Già — approvò l’amico e contorse la faccia in una specie di sorriso.

— Non sei inquieto, vero?

— Chi, io? No, perdinci. Ho cento e più cose da fare.

— Benissimo, allora. Ascolta, andiamo a fare colazione e dopo possiamo scendere al molo.

Scuotivento annuì con aria lugubre, si girò verso il suo assistente e tirò fuori una banana dalla tasca.

— Adesso che sai come si fa, prendi tu il comando — borbottò.

— Oook.

In realtà non c’era nemmeno una nave in partenza verso l’Impero Agateo. Ma il fatto era irrilevante perché Duefiori contò semplicemente qualche moneta d’oro nella mano del primo capitano di un veliero in procinto di salpare, finché l’uomo vide improvvisamente il vantaggio di cambiare i propri piani.

Scuotivento aspettò sul molo finché Duefiori non ebbe finito di pagare il capitano quaranta volte il valore della sua nave.

— Ecco sistemata la faccenda — annunciò l’ometto. — Mi sbarcherà alle Isole Scure e da lì troverò facilmente un’altra nave.

— Splendido — commentò Scuotivento.

Duefiori rimase un momento soprappensiero. Poi aprì il Bagaglio e ne estrasse una borsa d’oro.

— Hai visto Cohen e Bethan? — domandò.

— Credo che siano andati a sposarsi — rispose il mago. — Ho sentito Bethan dire che sarebbe stato ora o mai.

— Bene, quando li vedi dagli questa. — Duefiori gli tese la borsa. — So che mettere su casa per la prima volta costa parecchio.

L’ometto non aveva mai capito bene l’enorme differenza nel tasso di cambio. La borsa avrebbe facilmente procurato a Cohen un piccolo regno.

— Gliela darò alla prima occasione — lo assicurò Scuotivento e si accorse con sua sorpresa che intendeva farlo.

— Bene. Ho pensato di dare qualcosa anche a te.

— Oh, non c’è…

Duefiori frugò nel Bagaglio e ne estrasse un grosso sacco. Prese a riempirlo con indumenti e denaro e la scatola a immagini fino a vuotarlo del tutto. L’ultima cosa che ci mise fu il souvenir della scatola di sigarette musicale dal coperchio incrostato di conchiglie, accuratamente avvolta in carta velina.

— È tutto tuo — disse, richiudendo il coperchio del Bagaglio. — Io non ne avrò più bisogno e comunque non ci starebbe nel mio armadio.

— Cosa?

— Non lo vuoi?

— Be’, io… naturalmente, ma… è tuo. Segue te, non me.

— Bagaglio — disse Duefiori — questo è Scuotivento. Tu sei suo, va bene?

Il Bagaglio tirò fuori adagio le sue gambette e si voltò deciso a guardare il mago.

— In realtà, sono convinto che lui non appartenga ad altri che a se stesso — dichiarò Duefiori.

— Sì — approvò incerto Scuotivento.

— Be’, ecco fatto, allora. — L’ometto tese la mano.

— Addio, Scuotivento. Ti manderò una cartolina quando arrivo a casa. O qualche cosa.

— Sì. Ogni volta che passi di qua, c’è sempre qualcuno che sa dove mi trovo.

— Sì. Bene. Questo è quanto, allora.

— Questo è quanto, giusto.

— Giusto.

— Già.

Duefiori si avviò su per la passerella d’imbarco, che la ciurma della nave ritirò subito dopo.

Il tamburo cominciò a scandire il ritmo della voga e la nave venne spinta lentamente fuori nelle torbide acque dell’Ankh, ritornato al suo vecchio livello, s’immise nella marea e si diresse in mare aperto.

Scuotivento restò a fissarla finché non fu più che un puntino. Allora abbassò gli occhi sul Bagaglio, che gli ricambiò lo sguardo.

— Senti — gli disse — vattene. Ti restituisco a te stesso, mi capisci?

Gli girò le spalle e si allontanò. Pochi secondi dopo udì dei passetti che lo seguivano. Si voltò di scatto.

— Ho detto che non ti voglio. — E gli allungò un calcio.

Il Bagaglio si afflosciò. Scuotivento seguitò per la sua strada.

Dopo qualche metro si fermò, in ascolto. Non sentì nulla. Si girò a guardare. Il Bagaglio era dove lo aveva lasciato. Sembrava come ripiegato su se stesso. Il mago ci pensò un po’ su.

— Va bene, allora — disse. — Vieni.

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