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— Senti, immagino che il mio amico se n’è andato in giro da qualche parte — disse il mago. — Lo fa sempre, è la sua vita, piacere di averti conosciuta, devo andare…

Ma la ragazza si era già fermata davanti a un’alta porta, ricoperta di velluto viola. Dall’altra parte si sentivano delle voci… voci soprannaturali. Il genere di voci impossibili da riprodurre da una normale tipografia. Almeno finché qualcuno non fabbrica una linotype con eco-riverbero e, possibilmente, caratteri come bava di lumaca.

Ecco ciò che dicevano le voci:

— TI DISPIACEREBBE SPIEGARLO DI NUOVO?

— Be’, a meno che non rispondi con un atout, Sud metterà giù i suoi due atout, perdendo solo una Tartaruga, un Elefante e una Arcana Maggiore, poi…

— Quello è Duefiori! — sibilò Scuotivento. — Riconoscerei quella voce ovunque!

— ASPETTA UN MINUTO… SUD È LA PESTILENZA?

— Oh, dai, Mort. L’ha già spiegato. E se la Fame avesse risposto, come si dice, con una carta dello stesso seme? - Era una voce un po’ affannosa, umidiccia, di per sé già contagiosa.

— Ah, allora avresti potuto giocare con una Tartaruga invece di due — rispose con entusiasmo Duefiori.

— Ma se la Guerra avesse scelto un atout dichiarato all’inizio, allora il contratto sarebbe sceso a due?

— Esatto!

— OUESTO NON L’HO AFFERRATO BENE, RIPETIMI LA FACCENDA DELLE OFFERTE PSICHICHE, CREDEVO DI AVERLO CAPITO. — Era una voce greve e cavernosa, simile al cozzo di due grossi pezzi di piombo.

— Succede quando si fa un’offerta per ingannare gli avversari, ma naturalmente potrebbe causare dei problemi al tuo compagno…

La voce di Duefiori andava avanti col suo solito entusiasmo. Scuotivento guardava Ysabel con aria perplessa mentre gli giungevano attraverso il pannello di velluto parole come "supercontrare". "trattenuta doppia" e "grande slam".

— Tu ci capisci niente? — gli chiese lei.

— Nemmeno una parola.

— Sembra terribilmente complicato.

Dall’altra parte della porta la voce greve disse: — MAI DETTO CHE GLI UMANI GIOCANO A QUESTO PER DIVERTIMENTO?

— Certi diventano molto bravi a questo gioco, sì. Io sono soltanto un dilettante, temo.

— MA VIVONO SOLO OTTANTA O NOVANTA ANNl!

— Tu dovresti saperlo, Mort. — Era una voce che il mago non aveva intesa prima e che certo non avrebbe mai desiderato udire di nuovo, specie dopo il calar della notte.

— È sicuramente mollo… intrigante.

— DISTRIBUISCI ANCORA IL CARTE E VEDIAMO SE HO CAPITO COME SI FA.

— Credi che dovremmo entrare? — domandò Ysabel.

Una voce dietro la porta disse: — DICHIARO… IL FANTE DI TERRAPINS.

— No, scusa. Sono sicuro che ti sbagli, fammi dare un’occhiata alla tua…

Ysabel spalancò la porta.

Il locale era, in effetti, uno studio simpatico, forse un po’ sul tetro, creato in una giornata cattiva da un arredatore afflitto da emicrania e dalla mania di mettere grandi clessidre su ogni superficie piana nonché un sacco di grosse candele gialle e gocciolanti di cui voleva disfarsi.

La Morte del Disco era una persona tradizionalista che si vantava dei propri servizi e passava la maggior parte del tempo in depressione perché la cosa non veniva apprezzata. Lei argomentava che nessuno temeva la morte in se stessa, ma soltanto il dolore e la separazione e l’oblio. E che era affatto irragionevole prendersela con una semplicemente perché aveva le orbite vuote ed era fiera del proprio lavoro. Lei usava ancora una falce, faceva notare, mentre da un pezzo le Morti degli altri mondi avevano investito in mietitrebbiatrici.

La Morte sedeva a un lato di un grande tavolo coperto di panno nero al centro della stanza e discuteva accalorata con la Fame, la Guerra e la Pestilenza. Duefiori fu l’unico ad alzare gli occhi e a scorgere Scuotivento.

— Ehi, come hai fatto a venire qui? — domandò.

— Be’, certi dicono che il Creatore ha preso una manciata… oh, capisco, be’, è difficile da spiegare ma io…

— Hai portato il Bagaglio?

La cassa di legno scansò il mago e andò a mettersi davanti al suo proprietario. Questi aprì il coperchio e frugò dentro finché non tirò fuori un libricino rilegato in pelle e lo tese alla Guerra, che batteva sul tavolo il pugno guantato di ferro.

— È il Manuale delle Leggi del Contratto — disse l’ometto. — È eccellente, contiene un sacco di cose sulle varie regole e su come…

La Morte afferrò il libretto con una mano ossuta e si mise a sfogliare le pagine, del tutto dimentica della presenza dei due uomini.

— GIUSTO — affermò. — PESTILENZA, APRI UN ALTRO MAZZO DI CARTE. NE VERRO A CAPO ANCHE A COSTO DI MORIRE, FIGURATIVAMENTE PARLANDO, È LOGICO.

Scuotivento afferrò Duefiori e lo trascinò fuori della stanza. Corsero giù per il corridoio con il Bagaglio che li seguiva al galoppo.

— Che cosa stava succedendo? — chiese all’amico.

— Be’, loro hanno un sacco di tempo disponibile e ho pensato che avrebbe potuto divertirli — ansimò Duefiori.

— Cosa? Giocare a carte?

— È un gioco speciale. Si chiama… — Duefiori esitò. Il linguaggio non era il suo forte. — Nella tua lingua si chiama una cosa che si mette attraverso un fiume, per esempio — concluse. — Credo.

— Acquedotto? — osò Scuotivento. — Lenza? Chiusa? Diga?

— Sì, può darsi.

Giunsero all’atrio dove il grosso orologio scandiva via i secondi dalle vite del mondo.

— E per quanto tempo pensi che questo li terrà occupati?

Duefiori ci rifletté: — Non ne sono sicuro. Probabilmente fino a che l’ultimo atout… che orologio straordinario…

— Non provarti a comperarlo — io consigliò l’amico. — Non credo che da queste parti l’apprezzerebbero.

— Dov’è qui, di preciso? — domandò Duefiori. Fece cenno al Bagaglio di avvicinarsi e aprì il coperchio.

Scuotivento si guardò in giro. L’atrio era scuro e deserto, le finestre alte e strette arabescate di ghiaccio. Abbassò gli occhi. Ecco la tenue linea azzurra che si dipanava dalla sua caviglia. Ora vedeva che anche Duefiori ne aveva una.

— In certo modo siamo informalmente morti — rispose. Era il meglio che gli riuscì di mettere insieme.

— Oh! — Duefiori non smise di frugare.

— La cosa non ti turba?

— Be’, alla fine le cose si aggiustano, non ti pare? Comunque, io credo fermamente nella reincarnazione. In che cosa ti piacerebbe di rinascere?

— Io non voglio andarmene — dichiarò il mago. — Forza, andiamocene da… Oh, no! Non quella.

Dalle profondità del Bagaglio l’ometto aveva estratto una scatola. Era larga e nera con una maniglia da un lato, una finestrella rotonda sul davanti e una cinghia per mettersela al collo, cosa che Duefiori fece.

C’era stato un tempo in cui a Scuotivento l’iconoscopio piaceva molto. Lui era convinto, contro ogni esperienza, che fondamentalmente il mondo fosse comprensibile e che gli sarebbe bastato equipaggiarsi con la giusta portautensili mentale per staccarne il retro e vedere come funzionava. L’iconoscopio non scattava le immagini facendo battere la luce su una carta trattata in modo speciale, come lui aveva immaginato. Ma con un metodo molto più semplice, quello d’imprigionare un diavoletto dotato di senso del colore e di una mano svelta con un pennello. Scoprirlo lo aveva molto scosso.

— Non hai tempo per prendere delle immagini! — sibilò.

— Non ci vorrà molto — replicò Duefiori e batté ripetuti colpetti sul lato della scatola. Si aprì una porticina e il diavoletto sporse fuori la testa.

— Che diavolo! — esclamò. — Dove siamo?

— Non importa — disse il turista. — Per prima cosa l’orologio.

Il demone aguzzò gli occhi. — La luce è poca — decretò. — Tre dannati anni a f8, se vuoi sapere come la penso. — Richiuse la porta con un tonfo. Un attimo dopo si udì il debole rumore del suo sgabello che veniva trascinato davanti al cavalletto. Scuotivento digrignò i denti.

— Non hai bisogno di prendere le immagini — urlò. — Ti basterebbe ricordartele!

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