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Ursula Le Guin

Il giorno prima della rivoluzione

alla memoria di Paul Goodman (1911-1972)

Il mio romanzo I reietti dell’altro pianeta narra di un piccolo mondo di persone che si sono date il nome di «odoniani». Questo nome deriva dalla fondatrice della loro comunità, Odo, vissuta varie generazioni prima dell’epoca in cui si svolge il romanzo e che pertanto non partecipa alla vicenda (se non implicitamente, nel senso che tutto è cominciato con lei).

L’odonianismo è anarchismo. Non quella roba tipo bomba in tasca, che invece — con qualunque nome cerchi di darsi lustro — è terrorismo puro e semplice; non il libertarismo socio-darwinista di destra; ma l’anarchismo prefigurato dal primo pensiero taoista e prefigurato da Shelley e Kropotkin, da Goldman e Goodman. Il principale bersaglio dell’anarchismo è lo Stato autoritario, capitalista o socialista che sia; la sua principale componente morale-pratica è la cooperazione (solidarietà, mutuo appoggio). Di tutte le teorie politiche è la più idealistica e per me la più interessante.

Inserirla in un romanzo, cosa che prima non era mai stata fatta, fu per me un lavoro duro e lungo e mi assorbì completamente per vari mesi. Quando lo terminai mi sentii perduta, esiliata: una persona senza più patria. Perciò fui molto riconoscente quando Odo uscì dalle ombre del golfo della probabilità e volle che scrivessi un racconto non più sul mondo da lei realizzato ma su lei stessa.

La voce dell’altoparlante risuonava sonora come un vuoto furgone di birra su una strada selciata, e i presenti stavano schiacciati l’uno sull’altro come le pietre di un acciottolato mentre la voce li sovrastava con il suo frastuono. Taviri si trovava chissà dove dall’altra parte della sala. Lei doveva raggiungerlo. Si aprì faticosamente un varco serpeggiando tra le persone ammassate e vestite di scuro. Non udiva i suoni delle loro voci, non vedeva le loro facce: c’erano soltanto il tuonare dell’altoparlante e quei corpi addossati l’uno sull’altro. Taviri non riusciva proprio a scorgerlo: lei era troppo piccola. La strada le fu bloccata da un grosso ventre in un panciotto nero e da spalle imponenti. Doveva raggiungere Taviri a ogni costo. Tutta in un sudore, lanciò un pugno violento. Fu come urtare una roccia: l’uomo non fece una piega, ma dai suoi grandi polmoni le risuonò sul capo un baccano prodigioso, un muggito. Si fece piccola, poi comprese che il muggito non era rivolto a lei. Anche gli altri gridavano. L’altoparlante aveva detto qualcosa, qualche battuta a proposito di tasse o masse. Tutta eccitata gridò anche lei — Sì! Sì! — e continuando a spingere non ebbe difficoltà a uscire sulla Piazza d’Armi di Parheo. Il cielo sopra di lei era fondo e senza colore, e tutt’intorno l’alta erba piegava il capo sotto il peso dei fiorellini secchi e bianchi. Non ne aveva mai conosciuto il nome. I fiorellini ondeggiavano al disopra di lei, oscillando nel vento che al crepuscolo soffiava sempre. S’infilò di corsa tra l’erba, che si piegò docilmente e tornò a ergersi, ondeggiante e muta. Taviri era lì tra quell’erba alta, vestito del suo abito migliore, quello scuro che gli dava l’aspetto di un professore o di un attore, con un’eleganza severa. Non sembrava allegro: tuttavia rideva, e le stava parlando. Il suono della sua voce le fece venire le lacrime agli occhi: allungò il braccio per afferrargli la mano, ma non si fermò. Non poteva fermarsi. — Oh, Taviri — disse, — il posto è un po’ più avanti! — L’odore peculiare e dolce di quell’erba bianca si faceva più denso a mano a mano che lei avanzava. Sul suolo sentiva rovi, grumi, sentiva pendii, buche. Temeva di cadere, di cadere ; si arrestò.

Sole negli occhi, implacabile fulgore del mattino. La sera prima si era dimenticata di abbassare gli scuri. Voltò la schiena al sole, ma sul fianco destro non riposava. Inutile. Giorno fatto. Sospirò due volte, si rizzò a sedere, mise le gambe fuori dal letto, e restò lì piegata in due a guardarsi i piedi, con addosso la sola camicia.

Le dita, compresse fin dalla più tenera età in scarpe da poco prezzo, avevano le superfici di contatto quasi squadrate ed erano piene di calli; le unghie erano stinte e informi. Da un malleolo all’altro correvano rughe secche e sottili. Alla base delle dita, la piccola area piatta aveva conservato la delicatezza; ma la pelle era del colore del fango, e il collo del piede era percorso da venuzze annodate. Disgustoso. Triste, deprimente. Miserevole. Pietoso. Mise alla prova tutte le parole: andavano tutte bene, come piccoli cappelli ripugnanti. Ripugnante: sì, anche. Guardarsi e trovarsi ripugnanti, che allegria! Ma quando ripugnante non era, si era mai osservata a quel modo? No davvero! Un corpo efficiente non è un oggetto, non è uno strumento o una proprietà da ammirare: è semplicemente noi stessi. Solo quando non è più noi ma nostro, un oggetto posseduto, allora ce ne preoccupiamo. Le sue condizioni sono buone? Sarà all’altezza? Resisterà?

— Cosa importa? — disse Laia con rabbia, e si alzò in piedi.

Alzarsi all’improvviso le diede le vertigini. Dovette allungare la mano e appoggiarsi al comodino, perché temeva di cadere. In quell’attimo rammentò il sogno e il suo tendersi verso Taviri.

Cosa le aveva detto? Non lo ricordava. Non ricordava nemmeno se fosse riuscita a toccargli la mano. Nel tentativo di fare violenza alla memoria, la fronte le si aggrottò. Non sognava Taviri da chissà quanto tempo e adesso non ricordava nemmeno le sue parole!

Sparite, tutto sparito. Se ne stava ingobbita nella camicia da notte, la fronte aggrottata, una mano sul comodino. Da quanto tempo non pensava a lui (per non parlare di sognarlo) come «Taviri»? Da quanto tempo non pronunciava più il suo vero nome?

Diceva «Asieo». «Quando Asieo e io eravamo in prigione al nord». «Prima che incontrassi Asieo». «La teoria della reciprocità di Asieo». Oh, certo: parlava di lui, parlava sicuramente troppo di lui, a vanvera, lo tirava continuamente in ballo. Ma come «Asieo», con l’ultimo nome, quello dell’uomo pubblico. Il privato cittadino era scomparso del tutto. Erano rimasti così in pochi quelli che l’avevano conosciuto. Tutta gente che era stata in prigione. Allora si rideva del fatto che tutti gli amici fossero stati in tutte le prigioni, ma ormai non erano nemmeno più in prigione: erano nei cimiteri delle prigioni, oppure si trovavano in fosse comuni.

— Oh, mio caro — disse Laia, e si lasciò ricadere sul letto perché non riusciva a reggere al peso del ricordo di quelle prime settimane al Forte, in cella, quelle prime settimane dei nove anni al Forte di Drio, in cella, quelle prime settimane dopo che le avevano detto che Asieo era stato ucciso durante uno scontro sulla piazza del Campidoglio ed era stato sepolto con i Millequattrocento nei fossati a calce dietro la Porta di Oring. In cella. Le mani le si atteggiarono in grembo nell’antica posizione, la sinistra stretta e chiusa con forza nella destra, il pollice destro che esercitava una leggera pressione mentre andava avanti e indietro sulla nocca dell’indice sinistro. Ore, giorni, notti. Aveva pensato a tutti loro, a uno a uno, tutti i Millequattrocento, al fatto che giacevano sepolti, che la calce agiva sulla loro carne, che le ossa si toccavano in quell’oscurità cocente. Chi aveva toccato lui? Com’erano ora le delicate ossa della mano? Ore, anni.

— Taviri, non ti ho mai dimenticato! — sussurrò, e la stupidità della frase la fece ritornare alla luce del mattino e al letto disfatto. Naturale che non l’aveva dimenticato. Tra marito e moglie, queste cose non è il caso di dirle. Adesso i suoi vecchi e brutti piedi erano di nuovo sul pavimento, come prima. Non era andata in nessun posto, aveva solo girato in tondo. Si mise in piedi con un gemito di disapprovazione e di sforzo; si accostò all’armadio e indossò la vestaglia.

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